martedì 20 marzo 2012

Il Fausto (parte I)


Non avrei mai pensato di scrivere la storia della mia vita. Dover partire dal “ nacqui il…il giorno tal…in tal luogo” sembra a me per primo poco interessante e alquanto noioso: sarebbe come andare all’anagrafe e leggere i miei documenti ormai ingialliti ed impolverati. Per una parte ho condotto una vita piuttosto normale: se per normale s’intende che a circa diciannove anni ho intrapreso gli studi giuridici e una volta laureato, come tutti i giovani laureati della mia generazione, mi trovavo a dover far fronte al famigerato “mondo del lavoro” del quale si avvertiva il peso schiacciante sulle spalle. Ero un laureato che faceva rima col precariato. 
Partire dagli studi intrapresi, se anche presentassi tutto il mio curriculum vitae, neanche mi sembra una buona idea, ma forse risulta abbastanza necessaria per mettere in chiaro a me stesso il perché mi trovo nella mia situazione attuale. Volevo diventare un avvocato. Un avvocato che difende i più deboli, che interroga e confuta i vari articoli costituzionali, che ricerca nelle leggi quel compromesso tra verità e libertà; uno di quelli che prende a cuore le situazioni dei suoi “pazienti”, che cerca di psicanalizzarli anche, per capire fino in fondo le ragioni del comportamento umano, per segnare una linea marcata tra il bene e il male, per ristabilire quell’ordine originario e naturale che conduce gli uomini intelligenti alla più alta moralità. Era questo che volevo essere. 
Quel pezzo di carta mi permise l’accesso ai grandi e piccoli studi d’avvocati che, per ragioni ancora ignote e forse assurde, come nascoste da qualcosa di inconcepibile o da qualcuno di estremamente potente, s’erano arricchiti e conducevano “la bella vita”: ville, macchinoni, viaggi, affari, conti in banca, donne. Di certo era anche questa la mia ambizione, sicuramente secondaria, non disdegnavo affatto il giorno in cui avrei condotto quella vita. 
Fui nello studio dell’ “Avv. Torinesi”, (letto sul citofono, sul campanello, e fuori la porta, ovunque sembrava si ostentasse quell’apposizione) un omone grasso, tondo in viso e sempre con le gote infiammate sia in estate che in inverno. 
- Cerchiamo persone preparate innanzitutto. Lei è agli esordi leggo.. – mi guardò da sopra gli occhiali spostando verso destra quei quattro-cinque fogli uniti da una graffetta di metallo. 
- Sì, mi sono laureato da pochi mesi, quindi ho ancora viva quella fiamma e quella voglia di fare, di inaugurare la mia carriera..come può leggere dal terzo foglio sono stato presente a tre cause importanti, le quali mi hanno permesso qualche intervento ben ascoltato dal giudice che ha sentenziato innocente il cliente dell’avvocato Martucci di cui ero portavoce e collaboratore. Insomma, non dico che il mio intervento sia stato un atto eroico, ma, vede, la mia mente è ancora pregna di tutto lo studio effettuato in questi anni, per cui sono riuscito molto bene a resuscitare quegli articoli spesso dimenticati, gestendo e dimostrando così l’innocenza del cliente. 
- Molto bene. Nel mio studio sono presenti i migliori avvocati della città, lei questo lo sa. Sa che il nome Torinesi è subito seguito da “quel grande avvocato” – e qui si disegnò sulle sue labbra un ghigno di presunzione, seguito da una fine risata che serviva ad enfatizzare e far riflettere sulle ultime parole dette dal grassone autocompiaciuto. Emise una greve inspirazione e tornando serio riprese – non si aspetti però, che da quando, eSE, soprattutto – sul “se” alzò, come per darsi un acuto, il suo indice cicciotto – sarà assunto lei sia già all’altezza di tutti quanti gli altri qui dentro, specie alla mia! – un’altra risalta di autocompiacimento stavolta seguita da un forte colpo di tosse, come se le parole dette di troppo avessero occupato l’aria circostante che diventava viziata, e la sua gola. 
- Capisco benissimo. – risposi rimanendo composto, seduto al posto in cui mi disse d’accomodarmi. 
Una forte stretta di mano ci divise. 
Dopo qualche settimana fui richiamato e tra raccomandazioni superbe e severi avvertimenti, l’avvocatone mi assunse. Per i primi tempi fu dura accettare la mia condizione di..non so bene di cosa mi occupassi, o meglio: non so bene quale nome avesse la mia occupazione di..”fascicolatore”.
Ero impegnato a sistemare cronologicamente i fascicoli delle cause, in degli scaffali di legno alti che andavano dal “1995” al “2011” (ultima causa vinta l’anno prima). All’inizio allontanai i miei pensieri da qualsiasi tipo di lamentazione, accettavo questo lavoro da buon ‘gavettiere’ sognando ancora di ascendere e ambire ad un ruolo sempre più importante. Dall’alto della scala a pioli poggiata sull’alto scaffale osservavo come gli altri svolgevano il proprio lavoro. Avevano tutti delle grosse scrivanie in stile liberty, sulle quali erano poggiate delle lampade verdi e dorate ai contorni, le quali illuminavano inchinate, schiave, umilmente le cartacce e i grossi codici civili sui quali le schiene degli impiegati si piegavano: erano quattro in tutto. Tre uomini e una donna che, terzi nella gerarchia di quello studio, cercavano e costruivano specchi altissimi su quali far arrampicare Osvaldi e Firmoni, secondi a “quell’ avvocato grande” di Torinesi. Ultimi, io e Nina la segretaria, una donnetta sui trenta che solevo immaginare aggrovigliata tra i fili ricci del telefono, le lettere, i registri degli appuntamenti e la burocrazia. I suoi tacchi e la sua voce squillante rumoreggiavano sul pavimento e per le stanze dando ritmo alla vita lavorativa. Era lei che portava profumo e colore attraverso i suoi larghi maglioni rosa, i suoi foulard lunghi e leggeri e i suoi freschi capelli castani, ondulati. Tra di noi si instaurò un buon rapporto di complicità: primi ad arrivare, ultimi a finire. E non nascondo che tra quelle chiacchiere scambiate in solitudine intimità, mentre mi passava ora questo ora quel fascicolo ancora da sistemare e riporre nello scaffale, mi nacque il pensiero di un ipotetico innamoramento. Certo è che capitava spesso di arretrarci il lavoro apposta per restare soli a finirlo e per chiuderci alle spalle la porta di quell’immorale studio mentre le nostre borse venivano messe a tracolla, mentre la chiave compiva piroette in serratura. E’ anche capitato che scendendo le scale debosciati le abbia chiesto imbarazzato con le mani in tasca e le spalle in su – Ti va una birra al pub? – e lei aggiustandosi ora i capelli ora l’orecchino avesse risposto – Certo! 
Tornavo a casa quasi sempre stanco. Nel mio appartamentuccio di pochi metri quadri nel quale vivevo solo, mi gettavo stanco sul divano, sdraiato con le mani dietro la nuca riflettevo sul lavoro svolto, e mi sembrava ancora lontana l’idea e la mia forma di “avvocato morale che difende i più deboli”. Cercavo di capire quale funzione svolgessi in quello studio e per quanto ancora mi toccava svolgere quelle stupide mansioni. Bramavo il tribunale, mi vedevo vestito in toga nera con corde appese che si agitavano al mio agitarmi. Quanto ancora doveva durate quella “gavetta”? Quando profonda era? Quando e chi stabiliva che si fosse riempita? Precipitavo nel vuoto con questi interrogativi, lo stesso vuoto che avvertivo abbandonandomi al sonno. 
Passai diversi mesi a scoprire i sotterfugi e gli intrighi che circolavano sotto quella grassa firma “Torinesi”. 
- Sono importanti gli affari, caro giovine. Non importa se il cliente ha torto o ragione: lui viene qui, nel più grande studio d’avvocati..paga..e noi dobbiamo difenderlo! E’ il nostro lavoro: è il comandamento primo degli avvocati. E’ in questo modo che si fan soldi: vincendo cause. Lascia stare la giustizia, la morale, il torto, la ragione. Per gli avvocati bene e male non esistono! ..I soldi! 
Da queste parole pronunciate con fervore e quasi in intimità, come in confessione di un segreto, i pensieri che cercavo sempre di sopprimere vennero a svegliarsi come crudele verità che divorava la verità ideale. Lontano ero da quei ‘comandamenti’, mi sentivo spaesato dopo quel discorso, confuso, afflitto, sconfitto. Inetto. 
Pensai inoltre a come poter reagire. Dovevo mandare giù quel boccone amaro e restare in quello schifo oppure sputarlo e cercare dell’altro? La mia doveva essere una scelta ben ponderata. Ero contrastato: restare significava accumulare ‘punteggio’ e fare esperienza più o meno diretta; andarsene significava mettersi alla ricerca di un nuovo studio che equivaleva a dire ricominciare da capo. 
Le giornate trascorrevano per inerzia, senza troppo badare a queste cose, sembravo nascondere a me stesso una situazione che in realtà mi soffocava, mi spogliava dall’essere io. Eseguivo gli ordini muto, ero seriamente in crisi, non sapevo più cosa era giusto per me, cosa avevo sempre desiderato. Era necessario scardinare l’ideale, spodestarlo dal suo trono alto e morale. Era necessario occuparsi dell’altra verità. Accettai questa condizione: finendo da “fascicolatore” a “schiena gobba”. Ad un anno e mezzo di distanza dalla mia assunzione, regalarono anche a me una larga scrivania e la lampada verde.  Sono sempre stato uno che amava la vita, che doveva viverla a pieno lasciandosi trasportare dal flusso in continuo movimento. Sono sempre stato in armonia con me stesso, con la mia vita e con il mondo, ma da quando in studio subii il cambiamento, e da quando ascoltai quelle inquietanti parole che mi iniziarono a turbare, pensavo intensamente che la mia vita non avrebbe avuto più molto senso, non mi sentivo affatto realizzato e per questo motivo la morte di un’insignificante vita, quale quella che conducevo e avrei continuato a condurre, m’invadeva i pensieri. Mi dannavo soprattutto la sera, in solitudine, quando mi esiliavo da tutto e tutti: a quei tempi, nemmeno il pensiero di Nina più mi distraeva e rendeva felice: ci allontanammo. I nostri sguardi, non più complici, si evitavano nello stesso momento in cui si cercavano. 
Fu una di quelle solite e dannate sere che la mia vita cambiò profondamente. 
Era alla fine d’autunno. Il vento che soffiava forte spazzò via quasi tutte le foglie marroni dagli alberi, nell’aria si vedevano alzarsi polveri barocche, tornanti e uraganiche. I sospiri del vento s’innalzavano ad inni, era come il canto delle sirene: più m’allontanavo dalle finestre bianche più il fischio aumentava come a chiamarmi. Mi voltavo allora indietro, si placava; tornavo alle mie cose, aumentava, fino a quando spaventato e infastidito controllavo le maniglie. Una sottile e fitta pioggia iniziò scendere dritta. Qualcosa mi spaventava più del solito, più del buio che mi ha terrorizzato da bambino. Forse era proprio questo: ero al buio. Ero al buio perché la tempesta che principiava fuori face saltare tutta l’energia elettrica che cupolava sulla città. Di tanto in tanto, spaventosamente, s’intrometteva nella stanza una luce che rendeva tutto bianco: un lampo, seguito da un assordante tuono. Cercai di illuminare la piccola casa con delle candele. Dalla stanchezza probabilmente mi sentivo stanco e spossato, come un estraneo. Cercavo di pensare di dover mettere in ordine i fogli da lavoro, le cianfrusaglie che avevo in giro e i miei pensieri, ma l’unica cosa che mi riusciva facile era aggrovigliare ancora di più quella specie di parole confuse, stonate e disarmoniche che s’intrappolavano nel mio capo. 
Mi diressi quasi tentoni in cucina dove raccolsi tra le mani tremanti una tazza di caffè freddo, pronto dalla mattina. Accennai un sorso e nel preciso instante in cui si insediò in gola passando per il palato ruvido, indietreggiò il respiro. Mi sentivo come sospeso, indietreggiava ancora una volta. Portai le dita sul collo con un movimento convulso e frenetico. Strinsi gli occhi dal fastidio che procurava quel soffocamento, tossendo fortissimamente per tre volte. 
In quei forti accenti di tosse, così sforzati, era concentrata tutta la rabbia e la voglia di evadere da quella mia condizione che trovava emblema assoluto nel soffocare. E quelle dita che si stringevano al collo, invece che stimolare il respiro a procedere verso il suo normale corso, sembravano volessero bloccarlo, per sempre. 
Schiarita la gola, riaprivo lentamente gli occhi che quasi lacrimavano. Li spalancai immediatamente un attimo dopo quando davanti a me si disegnò un’ombra, immobile, con una ventiquattrore era dritta di fronte al mio corpo molle e sgraziato. Tutte le cose si fissarono nella paura e nel dubbio che mi assaliva come il brivido tra i capelli. L’ignoto mi spaventò. 
“Chi è? Che cos’è? Come ha fatto ad entrare? Quando? Da dove? Possibile che abbia tenuto gli occhi chiusi per tutto questo tempo e non mi sia accorto di un minimo rumore estraneo? Non vedo bene, manca ancora la luce e forse è solo un fantasma nato dalle mie fantasie. Sono allucinato, è probabile, sarò troppo stanco che…” mi rinchiudevo in questi pensieri, cercando di allontanare da me stesso quello che stava accadendo. 
Quella strana figura si presentò coi suoi chiaroscuri illuminati dal piccolo mozzo di candela che intanto si era consumata. Era alto, un po’ curvo; i suoi capelli grigi gli scendevano fin su le spalle e il ciuffo scompigliato ne portava innumerevoli verso sinistra; il mento era ricoperto da chiazze di barba bianca e lunga, come un caprone; le sue labbra erano rosee, accese; sotto le folte ciglia nere apparivano invece due grossi occhi agghiaccianti e celesti. La luce giallastra della candela sembrò intensificarsi, o soltanto quella macabra figura, elegantissima con un vestito nero e la cravatta, appariva più nitida nella mia mente. 
Si allungò sul suo volto un ghigno nella stessa direzione in cui curvò il collo per osservarmi compiaciuto e nello stesso tempo dubbioso. Mi squadrò da cima a fondo in quella posa. I suoi occhi tenebrosi scavarono nella mia anima, così fragile in quel periodo, che sembrava rendersi e perdersi allo sconosciuto. Per questi motivi, non riuscii a muovermi: i miei piedi erano piantati al pavimento, i miei occhi restavano spalancati come la mia bocca e forse ero ancora convinto si trattasse di un sogno, di un’apparizione che di lì a poco sarebbe scomparsa. Provai allora a strofinarmi le palpebre come un bambino spaventato e incredulo. Le aprii di nuovo e…nulla: quel mezzo uomo era ancora davanti a me, a fissarmi in quel modo immobile e snervante. 
- Salve! – la sua voce tuonò nella mia testa mettendo in fuga i miei pensieri sbagliati. Non era un fantasma. Aveva tutta l’aria di un burocrate affaccendato nelle sue cartacce sporche di inchiostro nero indecifrabile. Me ne accorsi dal modo frettoloso in cui aprì la sua valigetta poggiato su un ginocchio sospeso. Tenne stretto il lembo superiore sotto il mento, schiacciandolo sul petto. 
- Ho qui qualcosa che fa al caso suo…aspetti un momento che cerco di…ah! quanti fogli inutili! quante vite tristi oggi!..dovrei averlo messo..- nel frattempo accartocciava e sistemava da parte, sul tavolo, fogli sui quali era scritto il mio nome con accanto la mia foto. Non ricordo cosa pensavo in quel momento, se pure mi sforzassi risulterebbe impreciso, ero veramente sconvolto e assistevo alla scena incosciente. – Eccolo! – tirò fuori un volantino che mi tese. Feci un gesto lento per prenderlo ma lo ritrasse a sé, lo osservò davanti poi indietro – uhm..si è questo..tenga! – più lentamente di prima alzai il braccio e mi ritrovai tra le mani il foglio sul quale era raffigurato un vecchio. Era un vecchio seduto su uno sgabello, in abito rigorosamente di nero e cravatta rossa; barba e capelli bianchi e lunghi; aveva le cosce accavallate e poggiava sul ginocchio il gomito, e poggiava il mento tra le dita, assorto e serioso. Scorsi con gli occhi fino alla scritta:“VUOI UNA VITA FELICE?” e dall’espressione interrogativa e vuota, che feci rivolta a quel signore mentre il foglietto si afflosciò verso il basso, quello riprese a parlare con entusiasmo: 
- Allora? Ha letto? E’ lei che da un po’ è triste per la sua condizione? E’ lei che vorrebbe evadere da…lo…studio d’avvocati..Torinesi!?? – leggeva le informazioni da una delle sue carte - E’ lei che vuole essere un eccellente avvocato? E’ lei che vuole innamorarsi di una bellissima donna? E’ lei che vuole un figlio maschio? E’ lei che…- Quelle domande così ripetitive ma intime, quelle richieste continue che mi raschiavano l’anima, quel suono anaforico ‘’E’ lei..’’ mi penetrarono in profondità mettendo sottosopra i miei pensieri, risvegliando forte il flusso di sangue arterioso, che dalla mia bocca uscì un fioco e stonato:
- Sì. 
- Ah! molto molto bene. – sorrise mostrando i suoi denti aguzzi e gialli – Mi dica un’altra cosa, l’ultima: è lei Fausto? – acconsentii col capo – Perfetto! Io sono Mefistofle

giovedì 16 febbraio 2012

La Rabbia

<< Non capisco perché ogni volta che arriviamo sotto casa della signora Margherita devi attaccarti allo sportello, allacciarti la cintura di sicurezza e alzare il finestrino! Sembra lo faccia apposta…capisco che è vecchia, e forse le sue storie e i suoi discorsi non ti interessano, infondo sei soltanto un ragazzino di otto anni, ma ti ho sempre detto che per educazione dovresti stare composto a sentire, almeno quando ti si viene rivolta la parola. Sei sempre distratto, teso, ti guardi intorno in continuazione, scatti improvvisamente, salti dalla sedia, si può sapere che ti prende? >>
<< Niente mamma..>>
<< Ma come niente? Come se non ti conoscessi..sono tua madre, ti osservo, io lo so. >>
<< Niente mamma…>>
<< Forse è quel suo grosso neo sul naso? E’ quello vero? E’ disgustoso, di’ la verità? C’ho fatto caso anche io, quando mi versa il the, devo stare bene attenta a non fissarlo troppo. >>
<< Ma dai mamma, è disgustoso, spaventoso anche quello..>>
<< Anche? Allora c’è dell’altro?! Avanti, dimmi, se non è il suo grosso neo allora cos’è che non ti fa stare quieto? >>
<< è…credo sia...per Lex..il suo cane! >>
<< Il suo cane? Lex? Perché dovrebbe farti paura? E’ quasi sempre invisibile, legato fuori, con la porta sempre chiusa, che se ne sta per conto suo..non vedo che problemi ti da? >>
<< Uhm…non lo so, è sempre così rabbioso, che mordicchia il guinzaglio, con il pelo arruffato, si agita in continuazione e cammina avanti e indietro senza pace. Ogni volta che andiamo da quella vecchia signora, lui si mette ad abbaiare e a graffiare i vetri, poi si ferma a terra, mi fissa e mi mostra i denti bavosi…fa paura! Ecco perché non ci voglio mai venire da quella! >>
Mia madre all’epoca non aveva compreso, né badava alla mia fobia dei cani. In fondo, non ero l’unico ragazzino di otto anni ad averne paura: ce n’erano degli altri che avevano avuto esperienze assai più traumatiche. Come Enrico che corse per tutta la fabbrica inseguito dal cane del falegname, spaventatissimo si guardava indietro affannato.
Adesso ne ho ottanta di anni, e sono a letto malato. Il dottore mi ha detto di restare a riposo per un po’ di giorni. Il mio letto è circondato dai miei figli, da mia moglie che si affanna a prepararmi il brodo caldo, che si arrende all’invito di mia figlia Anna: << Lascia mamma, faccio io, va’ da papà! >>; ci sono anche i miei nipoti. Ho soltanto un po’ di febbre, e tutti temono il peggio visti i miei anni. Io non mi preoccupo tanto, a vederli tutti qui, riuniti in questa casa che girano di stanza in stanza, e si incontrano come anime gentili e fraterne, sono fiero dei miei figli compiuti, realizzati. La malattia sembra mi abbia dato quell’ immobilità attraverso la quale vedo gli altri muoversi intorno. Ogni cosa è a suo posto. Ed è proprio dal mettere le cose in ordine che è iniziata la mia vita: dal desiderio di scoprire cosa c’è dietro ogni cosa. I perché mi hanno ossessionato e ispirato, sono la fonte ultima di un combinatorio ragionamento, un groviglio d’inspiegabili domande che conducono tutte a quella finale del “perché?”.
Ho pensato alla mia carriera quando avevo sedici anni. Quando ho visto mia madre morire ed essere vittima dello sporco gioco del caso! Tornava da fare la spesa. I suoi ritorni erano sempre puntuali. Mi figuravo i passi e i luoghi che attraversava quando si separava da me: “ ora sta aprendo il cancello…lo richiude…sale le scale..eccola passare davanti alla porta del Signor Paolo…ecco che i suoi passi diventano più affaticati..lenti..è fuori la porta..e…”
<< Sono a casa! >>
<< Ciao mamma!! >>
In genere indovinavo. Quel pomeriggio, nonostante le mie figurazioni, mi persi in qualche suo passo incerto. Era in ritardo. Mi alzai dal tavolo dal quale leggevo, e mi avvicinai alla finestra, e, attraverso i riflessi doppi e molteplici delle vetrate dei palazzi, cercavo la sua esile figura riflettersi. Il riflettersi fu di una scena orribile: un uomo armato rincorreva un altro gridandogli frasi scomposte e scomunicate. Mia madre sembrava essere accompagnata dal destino, spinta verso la sua fine, proprio in quel momento in cui partì un colpo. Il suo grido, le sue abbandonate braccia per aria, le sue gambe che si piegavano, il suo corpo disarticolato si affidavano alla morte.
Fu allora che scelsi di diventare un uomo che risolve i casi strani del caso, il caos creato dalla psiche umana che si risolve in atti disumani.
Cadaveri. Volti bianchi e sfregiati ho visto davanti agli occhi per tutta la vita. Erano gli anni in cui la violenza invadeva le strade italiane in un susseguirsi di atti quotidiani.
Mio nipote Filippo, siede accanto a me e mi chiede di raccontagli la mia storia:
<< Come hai conosciuto la nonna? >> chiede il giovanetto.
Gli sorrido e gli rivolgo l’occhio. Intanto un dolore mi prende al polpaccio, come un crampo. Per cui piego il ginocchio istantaneamente da sotto le coperte, e con la bocca digrignata e con un verso animalesco mostro a tutti quello che sto provando. All’alzarsi delle lenzuola, s’accorgono proviene dalla gamba. Smettono di parlare intorno, con lo zittirsi vicendevolmente vedo affievolirsi le loro parole, fioche e sottili si spezzano a metà nelle bocche tese. Cosciente di aver attirato troppa attenzione << E’ solo un crampo…tranquilli…sto meglio, è stato un momento. >> cerco di ridargli calma e rompo la sospensione. Mio figlio Pietro, il padre di Filippo, si avvicina e sistemandomi i cuscini che mi sorreggono la schiena mormora:
<< Cerca di stare dritto e composto, rilassati e distendi le gambe: non sei più un uomo forte, ormai hai una cert’età. >> lo guardo severamente come per ringraziarlo allo stesso tempo, si allontana.
<< Allora nonno, mi racconti qualcosa? >> Filippo parla alla mie orecchie, pone la sua mano così giovane e forte, sulla mia così vecchia rugosa e molle, come per destarmi dal dolore; come per ridarmi quell’armonia che avevo prima che qualcosa mi invadesse il corpo; mi parlava come per costruire una filiale intimità, come per entrarmi dentro e scoprire i miei pensieri più profondi che proprio in quei giorni di malattia s’erano affacciati e mi si agitavano dentro. Sembrava che quel ragazzetto che mi sedeva accanto riuscisse a leggere nei miei occhi, i quali erano riusciti a fuggire da quegli altri dei miei figli, i quali, pur essendo quotidianamente presenti ai piedi del mio letto, cercavano di allontanare da loro stessi il motivo reale di quelle mie condizioni. Il motivo reale di quelle mie condizioni l’avevo io stesso nascosto, a loro come a nasconderlo a me stesso. E Filippo risvegliava, e tormentava il mio abisso inspiegabile, incomprensibile; sembrava sapere nascondessi qualcosa.
Una settima prima che la febbre arrivasse, ospite indesiderata, tornavo a casa circa alle 2:00 di notte. Ero stato svegliato dal commissario Vitti, giovane amico, che mi destò dal sonno con un colpo di telefono: << Occorre la sua saggia esperienza per risolvere un caso, un delitto in Via Michelangelo, 3. L’aspetto per strada. Mi perdoni per l’ora…sa che il nostro lavoro è così imprevedibile. A tra poco. >>. Succedeva spesso che, pur essendo un vecchio in pensione, chiedessero il mio aiuto “speciale” per certe complicazioni. Ebbene, quella notte, mi vestii accuratamente ed elegantemente, non so perché scelsi con quella cura il mio maglione preferito, il mio cappotto nero e la sciarpa grigia avvolta casualmente intorno al collo. Mi recai presso l’indirizzo. Altro delitto, altro mistero. Quei cadaveri si accumulavano nella mia mente e durante la notte mi presentavano il loro orrore; spesso, nei miei incubi, assumevano volti familiari: mia moglie, i miei figli, mia madre col suo cadavere scomposto, mio padre; talvolta uno di quei corpi e volti diventavo io stesso. Domandai qualcosa agli agenti e al commissario Vitti, diedi qualche dritta su quale pista intraprendere e mi lasciarono andare. Impiegai circa mezz’ora per quest’affare.
Tiravo dritto per la strada semibuia della via parallela in cui avevo parcheggiato la mia auto. I lampioni narcisisti si specchiavano nelle pozzanghere nere. Invadeva il silenzio destato dai miei passi freddi e frettolosi, ai quali iniziò ad un tratto ad alternarsi un rumorio come gocce che picchiettano, e si fanno grosse e veloci in crescendo. “ Meglio che mi sbrighi prima che inizi a piovere di brutto “ pensai. Ma notavo che intorno era tutto asciutto. Quel rumore cresceva e in lampo mi tornò alla memoria di uno stesso, riconosciutissimo e spaventoso. Quello stesso rumore anni addietro mi invitava a correre più che potevo, a scappare via lontano, a nascondermi, a salvarmi. Erano unghie canine che graffiavano l’asfalto. Era il rumore stridente e vertiginoso delle mie inquietanti fobie. Era un mastino randagio, nero e grosso che sembrava mi fiatasse sul collo. Ansimava bavoso. Avanzava severo, mi seguiva. Divenni così frigido che muovermi significava frantumare le mie ossa. Un brivido mi scosse lungo tutto il corpo, tanto da portare lo sguardo in alto, verso la luna che spaventata si stava per nascondere dietro un lungo velo di nuvole. Ho visto molti cadaveri e molto orrore durante la mia carriera di detective ma niente, nessuna cosa, nessun corpo, nessun lago di sangue, nessun ossa rotte o fuoriuscite mi avevano inquietato così tanto quanto la vista di quel cane. Mi fermai. Si fermò. Mi guardò intensissimamente, e anch’io lo guardai con occhi terrorizzati. Iniziai a scappare senza realizzare che sarai andato incontro alla mia fine, senza badare al suo istinto di cane che segue chi gli corre avanti. I nostri corpi s’intrecciarono, mi afferrò il polpaccio coi denti che sentivo entrare nella mia carne, sanguinosa. Rotolammo a terra, finché con un calcio, nel quale caricavo tutte le mie paure e l’odio verso quell’animale, riuscii ad allontanarlo. Restai seduto a terra per un po’, alzandomi i pantaloni fino al ginocchio: il calzino era pregno di sangue che colava dai fori. Cercai di ripulirmi con un fazzoletto, e ricomposto i pantaloni tornai a casa. E’ curioso come il caso, a cui volli correre dietro per tutta vita, mi presentò la morte con una delle mie più grandi fobie: quella per i cani. Ed è curioso come la mia morte dovesse arrivare attraverso una malattia che ha principio da un morso di cane. Giorni seguenti mi recai dal dottor Giorgi, lo feci volutamente in ritardo. Ero traumatizzato dal fatto che si realizzò quella paura che avevo meditato in segreto, di cui avevo immaginato l’essenza, la quale mi tormentava e dava i brividi soltanto all’udire della parola, o alla vista di un, cane. Il dottore confermò solo quello che avevo già intuito da solo, e avevo tenuto nascosto ai miei figli e a Filippo; per tempo mi disse che non c’era niente da fare. 
Mi restavano pochi giorni di vita: avevo contratto la rabbia. 

mercoledì 1 febbraio 2012

Il Grammofono

Allora come sto? Forse se sistemo questa piega sulla giacca.. e abbottono il polsino della camicia bordeaux…ecco fatto. Meglio con la cravatta o senza? Proviamo. Complicati questi nodi: ma fa tutto un altro effetto. Sembro molto più elegante, mano in tasca, petto fiero, quasi di profilo << Buonasera Signorina! >>. Oddio! chi uscirebbe con uno come me, perché? Forse è meglio che tolgo la cravatta. Mi siedo a piedi del letto ed inizio ad agitarmi. Mi rialzo. Torno a guardarmi allo specchio: profilo destro, profilo sinistro, una scapigliata ai capelli, faccio luccicare le scarpe nere, mano in tasca e << Buonasera Sig..ehm ehm..>> meglio schiarire la voce << EHM…Buo..MMM...Buonasera…Signorina! >>  non va bene! troppo serio e formale. Mi siedo di nuovo, stavolta affranto. Non credo riuscirò mai a fare una buona impressione. E se non andassi all’appuntamento?
Forse sono stato troppo avventato a chiederle di uscire, non sono sicuro mi piaccia poi così tanto..sì, è carina, ma niente di che. Intanto tolgo la giacca e la sistemo sul letto, a metà, con la parte bassa che penzola. Sbottono il colletto della camicia, la mia preferita, la tiro fuori dai pantaloni e mi metto scalzo. Vago su e giù per la stanza, lentamente, con i calzini a strisce che solleticano il tappeto. Arrivo sbadatamente per la terza volta allo specchio, di profilo, per la terza volta. Le mani solitamente in tasca, annoiate. Sto meglio in queste condizioni. Anche i vestiti assumono il mio atteggiamento, quello naturale: sbadato, trasandato, irregolare, fuori dalla norma; infondo chi sceglie la norma? Chi dice che presentandomi in queste condizioni, magari anche scalzo se non fosse scomodo guidare e  camminare sull’asfalto, farei una brutta impressione? Sono così. Ho quest’aspetto. Mi accetto, mi va bene. E poi a me non va di far colpo su nessuno solo per essere stato, per una sera, elegante, raffinato, gentilissimo.
L’ho conosciuta all’ingresso del negozio in cui lavoro. Mi colpì il modo in cui spostava, imbarazzata i suoi morbidi capelli dietro l’orecchio, accennandomi un sorriso, chiedendo << Permesso >>
<< Prego >> cedetti il passo, distratto per essermi piazzato proprio davanti la porta. Ne entrano tante di ragazze nel negozio della signora Lucia ma, forse perché quel pomeriggio non c’era molto da fare, ed aspettavo qualcosa di sorprendente che scuotesse il tempo per affrettarlo, ella riuscì a prendere parte nei miei pensieri per un po’ di tempo, giusto quello in cui la osservavo studiare gli oggettini, e riporli delicatamente al loro posto. Quando ebbe pagato, si avviò alla porta, che stavolta avevo occupato apposta, a gambe divaricate  << Le andrebbe di uscire? >> .
Ecco così su due piedi, avrebbe detto di no. E così fu. Allora come è possibile che questa sera ho un appuntamento con questa ragazza? Al negozio passò dopo una settimana, e poi tre giorni dopo, e poi due giorni dopo, e poi il giorno seguente; finché per una scusa o per un'altra, per prendere questa o quell’altra cosa, la sua fu una visita giornaliera.
Passò qualche mese e precipitandomi prepotentemente davanti alla porta le riproposi: << Le andrebbe di uscire? >>, avevo un sorriso da ebete, facevo tenerezza, forse è per quello che dopo essersi fatta una grossa risata, nascosta da una mano, scosse la testa sorridendo in segno di negazione ma accettò << Volentieri! >>.
Sospiro. Per radio inizia una musica, decisamente vecchia accompagnata dal segnale disturbato che mi distrae dal decidere di cosa fare di questa serata. Mi avvicino. Il segnale si fa sempre più disturbato, intricatissimo e stonato. La pioggia di fuori che picchia sulla mia finestra è preannunciata da un forte tuono, prima ancora da un lampo che illumina di dentro tutta la stanza. Forse è per il maltempo che non riesce a trovare la giusta frequenza. Quand’ecco che la radio diventa un vecchio grammofono di legno. La musica anni ’40 si fa più intensa e fuoriesce alta. Mi ritrovo di fronte all’asta di un microfono, quasi spaesato, una luce gialla e tonda m’illumina e sono al centro della scena. Di fronte un pubblico è seduto tra i tavolini tondi, che consuma coppe di champagne. Il sassofonista dietro di me mi fa cenno col capo. La mia voce, incontrollabile inizia a cantare intensamente e con passione, una canzone jazz le cui parole inglesi “ I love you, so much love you…always ” sono rivolte alla donna che mi siede davanti. Elegante, raffinata, composta, fine. E’ la mia Irene. Irene, Irene che ho sempre amato e che non ho mai incontrato. Anche il suo volto è in ombra, ma riesco a percepire quello che prova per me, quello che vorrei provasse, le cure che mi offre, le attenzioni nobili che non posso altro che ricambiare dedicandole ad occhi chiusi “ I love you, so much love you…always “. 

mercoledì 25 gennaio 2012

Il vicoletto delle Vergini

Magrissima. Sottile appariva sotto quel vestito bianco, nuziale.
Pallidissima ed emozionante, rosea sulle gote. Verdi i suoi occhi languivano quando volgeva lo sguardo indietro quasi nascondendosi dietro la spalla.
Migrava col pensiero a stormi verso la nuova casa, e il nuovo marito che avrebbe raccolto il suo fazzoletto bianco, lasciato cadere, ceduto in sposa. Era un’ Esposta. Figlia della Madre e di Dio. Figlia della Terra e del Destino. Figlia di nessuno.
Stava per lasciare il convento, quello da cui 17 anni prima fu accolta, e sorridente, le fu messo nome Giulia.
Suor Virginia era in limine, con le mani giunte in orazione, lacrimante. La guardava riporre le sue cose nel baule sotto il letto, piegava il maglione di lana e la sua gonnella lunga fin dopo i ginocchi, e poi la divisa da orfana.
Quando Giulia si accorse che colei che l’aveva più accudita di tutte la osservava, si fermò un attimo. Si guardarono da lontano intensissimamente, come si guarda una madre quando si va via, come si guarda una figlia che lascia la casa. Così, a distanza, quasi per mantenere quel rispetto che c’era stato, quell’affezione primordiale silenziosa, aulica spoglia di gesti, parole ed effusioni; carica di tensione, cordialmente vestita di virtù divina.
Suor Virginia sospirò. Guardò al cielo come per fermare le lacrime.
<< Vai via oggi, figlia mia? >>
La ragazza, raggirò il letto e le andò vicino. Le carezzò il volto, le prese le mani nelle sue e, come segno di ringraziamento e abbandono, l’abbracciò.
Attraversava le camere e il convento tutto: il chiostro in cui rincorreva il pensiero di sé bambina, solitaria e taciturna, meravigliata di ogni cosa e del verde muschio che s’aggrappava alla rocce e al pozzo; il dormitorio; la cucina di donna Giovanna in cui si sentiva ancora l’odore delle lenticchie e lo scoppiettar della legna in forno, dove cuoceva il pane quotidiano. Salutò tutti e tutto, s’avviò al cortile dell’Annunziata ancora barocco, lasciandosi dietro le arcate e le sculture dell’annuncio a Maria Vergine.
In via Nuova, fuori del convento, l’aspettava lo sposo e la sua nuova vita.
Per la campagna, dove sorgeva un casolare spezzato dai raggi del sole vespertino, arancione, e dalle nuvole sparse che predicavano pioggia, si immischiavano i suoi ricordi di un passato nell’aspettative del futuro.
Ernesto Guerra, quel 15 di Aprile 1942, raccolse il fazzoletto di Giulia, prima che esso si dispiegasse al suolo. Era un uomo apparentemente dolce, dalla personalità deviata, controversa, corrotta, contorta e che contorceva lo stomaco altrui. Elegante, col ciuffo che maniacalmente si pettinava e gettava all’indietro. Gli occhi sbarrati e le intrigate trame dei suoi capillari scleracei mostravano il suo carattere instabile, mutevole, multiforme e informe, nascondevano il nascere inspiegabile di un mostro spietato e pazzo! Era di una bellezza svuotatrire, ingannevole, misteriosa. Giulia lo adora religiosamente, tanto da annullarsi: un annullamento che la rendeva vulnerabile, quasi vuota, tersa. Amava uno squilibrato, uno sconosciuto, soltanto per la sua bellezza.
Era raro che le figlie della famiglia delle Esposte riuscissero a coniugarsi con una simile bellezza, gli aspiranti non erano certo di buona famiglia, ma erano uomini soli, maledetti, ubriaconi, zoppi, gobbi, distorti, spostati, forestieri, ladri, malviventi.
<< Preparami qualcosa di buono per cena! >> le disse Ernesto.
Operosa lei svolgeva il suo compito di moglie, e subordinata. Per i primi tempi si mostrava rispettosa e lavoratrice, osservava i comandamenti dettatele dal marito. Lo studiava, era dapprima affascinata dal suo aspetto, poi quotidianamente cercava di insediarsi e scorgere nelle pieghe del suo io, tortuosissime, inspiegabili.
Particolare fu l’episodio di una sera invernale.
Era una notte fosca, ansiosa, la nebbia sparsa circondava come nuvole basse il casolare; la luna ululante si spezzava tra i rami degli alberi nudi. Giulia era a letto, tra le lenzuola spiegazzate su cui posavano le ombre trasversali. Udì in lontananza un’automobile che rigava la terra della campagna, e dei cani rabbiosi corrergli dietro e abbaiare. I fari spezzavano l’inquieta quiete. Ella s’alzò per affacciarsi alla finestra: era Ernesto. Non diceva mai dove andava, ritiravasi stonato e maledetto, cogli occhi solcati e pungenti. Quell’uomo, se pur bello d’aspetto, affogava molti segreti, spaventosi, tesseva trame intriganti, aggrovigliate come ragnatele, che metteva insieme fatti, cose, persone come statue mute che esplodono, lasciando cocci sparsi, difformandosi morendo.
Ernesto Guerra era il nome di un assassino, era il nome di suo marito, di un uomo che, prima di diventare uomo, fu maltrattato da sua madre. Fu rinchiuso per sette anni in uno scantinato, perché in quella famiglia di dodici figli era di troppo. Il padre soltanto non volle abbandonarlo, né ammazzarlo, né rinchiuderlo in un orfanotrofio. Era un Guerra, e un giorno, qualora fosse sopravvissuto, avrebbe portato avanti il suo nome. Gli fu privato ogni affetto dalla madre che lo guardava sempre con ribrezzo e disgusto, altezzosamente avvolta nel suo grosso scialle nero, e il mento rivolto in su, indifferente. Ricordava quegli anni come traumatici, quello scantinato umido e gocciolante divenne il suo mondo e la fabbrica in cui lavorò alla sua violenta meccanica. Fu poi adottato da una zia paterna, la quale non riusciva a avere figli, dopo il venticinquesimo anno di matrimonio. Crebbe, e gli fu affidata la casa in campagna. I suoi assassinii erano regolati dall’odio: far fuori quanti gli ricordavano quegli anni e quei familiari assassini. Uccideva il simile, credeva di uccidere il ricordo, credeva uccidendo di privarsene materialmente.
Quella sera tornò mostruoso, affannato. Si poggiò sul camino che gli arrossì il volto su cui s’affacciava il ciuffo straordinariamente sudato e scomposto, fissava il fuoco, ansante e dannato.
Giulia, che a piedi scalzi sotto la veste da camera, s’era messa ad osservarlo inquietata, realizzò che uomo fosse, suo marito. Si lasciò cadere a terra, strusciandosi con la schiena al muro, spaventatissima alla vista di una revolver che grattava la tempia di Ernesto.
Tornò stordita a letto, sembrava privarsi dei sensi ad ogni passo, molle, leggero, silente. Decise di non parlarne mai, accettando la sua condizione di moglie e di serva. Il suo silenzio di rassegnazione, pareva un atto di complicità che mai si risolse.
Le cose da quella sera molto cambiarono. 

lunedì 16 gennaio 2012

Igor

Igor. Si chiamava Igor. Biondo. Igor era biondo e aveva gli occhi azzurro chiaro, nei quali racchiudeva tutto il gelo della sua Russia. Non so perché lo portai a casa mia. Lo vidi una sera dicembrina buttato sul tavolo della birreria in via D’Annunzio. Sembrava ubriaco e stanco. Dormiva. Entrai per prendere da bere, per subire l’effetto dell’alcool che ti riscalda e per annegarci dentro tutti quegli inutili pensieri senza capo né coda, senza un senso, che si mescolavano in me come il fumo freddo che usciva dalle bocche ansanti di fuori. Erano le ventitre e tre quarti, e tutti i tavoli erano occupati << tranne quello laggiù in fondo >> mi indicava il cameriere << è per quattro persone, ma quell’uomo ha occupato due posti per come sta lì buttato. Avrà bevuto parecchio: fanno tutti questa fine a quest’ora. Gli stranieri poi…vorrei sapere chi ce li manda quelli! >> . C’eravamo intanto avvicinati al tavolo. Cauto e con gli occhi sbarrati per l’orrore mi tenevo a distanza dal tavolo e dall’uomo, biondo nei capelli spettinati. Aveva la testa appoggiata sul braccio, effettivamente sembrava disfatto, morto, soprattutto dalle mani molli, pallide, quasi gelide e semiaperte, con l’indice che puntava al boccale di birra un po’ scostato, il cui fondo aveva tracciato una scia sul legno. Era pieno e si poteva notare la schiuma bianca esauritasi sull’orlo, con ancora qualche bollicina che si rincorreva in superficie. << E’ pieno ! >> dissi a voce alta. << Eh? Che dite? >> si voltò il cameriere, << No, nulla, vedo che il suo boccale è ancora pieno! >>
<< Sarà il quarto o il quinto o il sesto, tramortito non ce l’avrà fatta ad iniziarlo…>> . Il cameriere cercò di spostarlo verso il limite, e con tanta sicurezza come fosse un barelliere che da’ movimento ai corpi morti, cosciente e meccanico nel suo lavoro, rigido. Gli fece assumere una posizione quasi composta, prese una pezza dal tascone del suo grembiule nero e ripulì il tavolo: << Ecco! è l’unico posto, mi spiace, appena si libera qualche singolo la faccio chiamare.>>
<< Grazie ! >> risposi in fretta a capo basso. Ero completamente distratto ed inquietato dalla scena macabra che avevo davanti agli occhi; volevo reagire, fare qualcosa, smuovere l’uomo che avevo di fronte e del quale non conoscevo ancora nulla. Cercavo di capire come si era ridotto in quello stato, da dove veniva, dove andava e se come me cercava risposte nel fondo di un boccale di birra o di un cicchetto. Questi pensieri venivano disturbati da un rumore sordo, da versacci, da sillabe distorte e senza forma: << Allora? Le porto qualcosa o preferisce contemplare questo scempio? >>. Alzai gli occhi infastidito, ancora distratto : << Assenzio. >>
Il bicchierino arrivò sul tavolo prima sbattendo e scivolando poi, toccando l’uomo che nel frattempo si era adagiato di nuovo sul tavolo, al limite, con un braccio penzoloni tra le gambe. Dovette sembrargli uno scossone, si agitò, spaventò, disse qualcosa che fu poco chiaro anche alle sue stesse orecchie. Convulso si svegliò. Mi guardò imbarazzato con gli occhi sbarrati. Rimasi immobile a guardare, vuoto. L’assenzio ondeggiava come un mare in tempesta, lo lasciai agitarsi senza toccarlo. L’uomo intanto si asciugava la bava procuratagli dal sonno con la manica del maglione di lana porpora, consumato, invecchiato un po’. Non aveva del tutto preso coscienza: me ne accorsi quando, dopo quel gesto, rimase a fissarmi senza riuscire a ragionare, con gli occhi che correvano velocissimamente a destra e a sinistra socchiudendosi. Per un momento avvertii un grave brivido che mi percorreva lungo tutto il corpo, svuotandomi. Scossi la testa piegandola tra le spalle.
<< Serve aiuto? >> gli domandai. Non riusciva ancora a capirmi o forse non mi capiva affatto.
Decisi di farlo alzare per sgranchire le gambe. Buttai la schiena all’indietro trascinando la sedia sul pavimento ruvido. Stridente fu quel rumore. Mi avvicinai a lui, senza sapere cosa stessi esattamente facendo. Gli presi un braccio, floscio, mi guardò dal basso pietoso, quasi grato. Feci forza sulle mie ginocchia e lo invitai ad alzarsi. Facemmo qualche passo e uscimmo dal locale. Il freddo gli punse gli occhi che lacrimando sembravano sciogliersi, si abbracciò e strofinò le braccia..ah, l’aria fresca!
<< Va un po’ meglio, vè? >> sorrisi. Annuiva.
 << Da dove vieni? >> domandai,
 << da Russia >> rispose << cerco posto per una notte >>.
Non so se fu la pietà per la condizione in cui l’avevo trovato o cos’altro che mi fece dire precipitosamente << Andiamo! >>

Giungemmo a casa. Accesi le luci e lo invitai a sedersi.
<< Mi chiamo Igor. >> sentii alle mie spalle mentre appendevo il cappotto all’ingresso. Con le braccia ancora su, girai il capo a metà. Restando fermo per qualche secondo, come per meglio ricordare il suo nome. Il soprabito rimase appeso che ondeggiava.
<< Ah! Piacere di conoscerti >> disse la nostra stretta di mano.
<< Grazie per quello che fai per me >>
<< Figurati! Se hai bisogno di qualcosa…da quand’è che sei in Italia? >>
<< Forse un mese >>
<< Cosa sei venuto a fare qui? se posso chiedertelo..>>
<< Sono scappato da mio paese. Sono venuto per trovare lavoro, per diventare uomo nuovo, per cercare posto migliore. >>
Mi accorsi che era tutt’altro che ubriaco. Mi raccontò che s’era addormentato su quel tavolo dopo aver ordinato il boccale di birra. Aveva vagato tutto il giorno, dall’alba in cerca di un lavoro dignitoso che non prevedeva schiavismo, lavoro nero, e sottopaga. Proveniva da una famiglia russa benestante, che aveva perso la casa a causa d’un incendio appiccato dal suo datore di lavoro, il quale lo aveva licenziato perché sua figlia, Anna, aspettava un bambino dallo stesso Igor. Tutte le agenzie per le quali avrebbe potuto lavorare gli chiusero porte in faccia, il signor Peter Kozlov era il più potente di tutti. Così prese a raccontarmi la sua storia quella sera, fino a notte fonda. Non aveva aspirazioni: aveva tagliato le gambe ai suoi sogni rimasti a morire da qualche parte. Viveva alla giornata come fanno molti, incerto, spaventato, insicuro, incapace di quello che gli avrebbe serbato il futuro. Eppure quella sera riuscì a darmi un forte senso di umanità per lo straniero.
Uno straniero che veniva a cercar calore umano, conforto, riparo.  
Uno straniero che era solo.
Uno straniero che portava negli occhi il ghiaccio della Russia.
Uno straniero che aveva gli occhi di un uomo.

mercoledì 4 gennaio 2012

Gli Addii

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
All’ansia della partenza, alla paura di fare tardi e di essere immerso in un “cambio vita radicalmente” è quasi necessario che si aggiunga anche la rabbia per Trenitalia. Sempre in ritardo noi italiani! anche i nostri treni.
Devo avvertire il sig. Giulio di spostare l’appuntamento per questa sera, e semmai di lasciarmi le nuove chiavi di casa da qualche parte. Figuriamoci! Nemmeno conosco il mio padrone di casa e sono certo che si sarà già fatta un’idea sbagliata su di me. Lasciarmi le chiavi di casa. Dove poi? Crederà che sono inaffidabile, superficiale, approfittatore. Adesso lo chiamo e gli dico di vederci domattina presto.  Mi toccherà prendere una camera in qualche fetido e decadente albergo con questi pochi soldi che mi son portato dietro. Che sarà mai, dopotutto, una notte?
Devo cercare assolutamente qualche panchina su cui sedermi per compilare i moduli. Il ritardo del treno mi permetterà di finire anche questo libro che ho iniziato settimana scorsa. Dove l’ho messo? Dov’è finito? Mi sa che cambierò anche questa vecchia borsa, oltre alla casa. Trovato.
E’ sempre opportuno portarsi dietro qualche libro quando si entra in una stazione italiana, non per il viaggio durante il quale sono particolarmente preso dal guardare il paesaggio e ogni personaggio che passa nel mio vagone. Si incontra parecchia gente strana, bizzarra, ma anche normale, comune, bella. Insomma gente proveniente da ogni classe sociale, se n’è rimasta qualcuna, o comunque gente povera e ricca, alta e bassa, grassa e magra, bionda e nera, pallida e scura e olivastra, ceca e zoppa, giovane e mezzana e vecchia.
Un libro è sempre utile per tappare questi maledetti ritardi. O ci si abitua o ci si abitua. Noi italiani siamo un popolo di conformisti, e ci piace. Sì, ci arrabbiamo, ci indigniamo, ma ormai la nostra lamentazione è pari ad un belato di pecore che segue il gregge, che lo segue rassegnato pur sapendo di essere condotto infondo al burrone.
Mi sto perdendo troppo. Devo ricordare ai mie panni vecchi di adattarsi e abituarsi al nuovo armadio. Chissà come si sgualciscono qua dentro, in questa valigia.
Pagina 63, ecco dov’ero arrivato. Ma io proprio non ce la faccio adesso a leggere. Mi sta prendendo un’ angoscia e una malinconia, un magone alla bocca dello stomaco, una morsa che mi stringe la gola. Sarà il tempo che si starà facendo più cupo. Sarà il sole che mi ha privato della sua luce perché mi togliessi quell’espressione accigliata dal volto e distendessi lo sguardo intorno. La stazione. La mia stazione. Sto per partire e questa è l’ultima volta che ci metto piede. Per un attimo ho creduto che il treno sia sua complice, che come un personaggio che si sente indiscreto, si ferma in disparte e guarda da lontano mentre qualcuno mi si avvicina intenzionato a dirmi qualcosa di importante. E’ la stazione, è lei che come una vecchia amica dai capelli grigi, e ondulati per il vento della velocità, mi vuol dire: “ Addio. “

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
<< Mi scusi saprebbe dirmi qual è il binario per il regionale 1103? >>
<< Puoi controllare su quel tabellone lì affisso…>>
<< Sì, ho dato un’occhiata ma.. questo treno per il tabellone non esiste! >>
<< Mmm..strano, dovrebbe essere aggiornato ! >>
<< Già, quindi lei non sa dirmi a che binario arriva? >>
<< Guardi, chieda in quell’ ufficio...>>
<< Va bene, la ringrazio! >>
“ Chieda in quell’ufficio “ ..facile. Un gioco da ragazzi. Come al solito chiedi un’informazione a qualcuno esperto nel suo campo e, cosa fa? Semplice: insofferenza per la richiesta, risposta evasiva e si rimanda altrove, da qualcun altro. Via. Via per aver disturbato la quiete cerebrale o per aver interrotto l’ultimo tiro tanto aspirato di sigaretta. Sembra che questa gente abbia il terrore, il trauma di essere domandati. Quasi non guardano negli occhi, restando con lo sguardo imbizzarrito che si sposta come una pallina di un flipper. Mah..
Qui c’è un bar…riecco l’entrata…questi sono i bagni…
Laggiù c’è un vecchio barbone, questo cattivo odore di orina sembra proprio provenire da quella parte. Che schifo! Sarà meglio che mi allontani e continui a cercare al lato opposto. Coi tempi che corrono se ne sentono in giro di notizie su barboni che stuprano le giovani donne. Successe anche a Luisa, qualche mese fa, tornando a casa, proprio davanti al portoncino. Un vecchio ubriaco la scaraventò sul vetro e, premendo su di lei con forza, fece sì che si rompesse.
Riecco i bagni…l’entr…
<< Ah! Attenta! Ma dove diavolo hai gli occhi? >>
<< Oh mio dio, perdonami è che vado di fretta, il mio ragazzo è lì sul treno che mi aspetta e sono molto distratta..>>
Come posso non riconoscere questo volto..
<< Oh Emma! >>
<< Stefania! Che piacere rivederti..perdonami non ti ho manco riconosciuta..>>
<< Eh già, sono passati parecchi anni da quando eravamo compagne di banco. >>
<< Mamma mia, quanto tempo! >>
Ricordo di quando ci scambiavano per sorelle, stavamo insieme sempre. Anche dopo scuola, nel nostro tempo libero, mi invitava a casa sua per ascoltare la musica e canticchiare stando sdraiate sul tappeto con le gambe poggiate al muro.
<< Ma dov’è che vai? E chi è il tuo ragazzo? >>
<< Piero, il figlio dell’avvocato del terzo piano. E’ lì sul treno che mi aspetta. Scappiamo! >>
<< Come sarebbe scappiamo? Non vorrei trattenerti più a lungo però, hai fretta vedo >>
Si allontana verso il treno, chissà dove scappano..
<< Andiamo via! Lontano da questa città. Via! Fuori! All’estero! In America o magari su Marte! >>
Grida salendo sul treno. Mentre saluta con un piede dentro e l’altro fuori, col cappotto verdaccio che le svolazza insieme ai suoi capelli castani, lunghi e sempre sciolti che si agitano per aria.
<< Mi ha fatto piacere rivederti ! A presto !! >> grido anch’io.
<< Addio !!! >>

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
Una vita sprecata è la mia. Inutile. Ho vissuto per circa ottant’anni. Sperando di ritrovare la speranza. Sperando che le cose cambiassero. Sperando di ritornare a vivere. E’ tutto così vuoto, perso. Perso come il mio io che si aggroviglia e raggomitola su se stesso. Giacente su un fondo senza fondo. Privo di pensiero, di parola, di azione. Qual è la mia storia? Perché mi trovo qui? In questa stazione? E’ tutto così incerto e privo di senso ormai. Non ci sono più speranze per un vecchio come me. Un barbone. E’ questo quello che sono: un barbone. E ho faticato molto per avere una vita desiderabilissima come quella che avevo. La guerra! La guerra! Vorrei gridare a tutti: mettetevi al riparo, arrivano i nazisti. Le bombe! LE BOMBE! Stragi interminabili. Orrore. Violenza. Distruzione. Macerie. Sono una maceria. Un pezzo di muro scalcinato. Mi hanno portato via tutto, le mie opere, i miei scritti, i miei romanzi. Bruciati perché contro il regime. Ma quale regime? Quello dell’inferno! Ecco quale regime.
Quella ragazza che viene verso di me, assomiglia alla mia Amalia. La mia donna, che la guerra mi ha fatto vedovo. Chiudo gli occhi e mi ritorna in mente, con un quel suo lungo vestito nero. I guanti bianchi che soleva sfilarsi per pormi le carezze. La scalinata che scendeva con eleganza sublime. I suoi capelli raccolti in un fermaglio luccicoso, odoranti di primule fresche, luccicoso come le spille che mettevasi al petto di farfalle e gigli. Svanisce la sua immagine ad occhi aperti. Nessuno ascolterebbe più cos’ho da dire. Nessuno ascolta più noi vecchi. La devastazione che quegl’anni m’hanno portato nel cuore, fanno della vita un caffè senza zucchero, un bicchiere d’alcool che brucia in gola. Brucia questa vita. Il treno, e la mia morte, sono in ritardo di 45 minuti. Vagabondo ancora andando vedo che c’è ancora qualche giovane ch’occupa il suo tempo perdendosi in letture.
<< Accorto figliolo! Accorto a ciò che leggi…potrebbe essere pericoloso figliolo! Sta accorto!>>
Sono andato su e giù per le strade randagie. Cercando cibi e briciole nelle spazzature, tremante dal freddo mi riscaldavo con lo smog e coi gas che bruciavano le auto, oppure sotto i bassi lampioni. La guerra ha lasciato in me un segno profondo. Mi ha portato via tutto: le mie opere, i miei scritti, i miei romanzi. Bruciati perché contro il regime. Ma quale regime? Quello dell’inferno! Ecco quale regime. Nonostante abbia vissuto il “boom”. Nonostante ho visto figli di contadini schiacciare pomodori al suolo e gridare: << Padre, voglio studiare! Voglio studiare padre! ne ho il diritto! >>. Ho visto diventare case popolari le vecchie catapecchie rurali. Ho visto una traversata di automobili FIAT in fuga, girare intorno alla piazza. Ho visto cambiare gli abiti, giovani andarsene in giro con radio sulle spalle. Diventò la televisione a colori, si diffusero altri privati canali. Il consumo iniziò in quegl’anni a riempire le case di prodotti col marchio. Una discarica di cose usa-e-getta divennero le città, puzzolenti di benzina, grigie. La mia vita mi sembra essere passata tutta davanti, proprio come uno “spot” di 30 secondi, adesso che sono sommerso da tutto questo peso, adesso che sono cosciente di non avere più niente a cui essere legato, non ho motivo di ostentare la mia voglia di vivere. Sono rimasto per tutti questi anni solo, e accartocciandomi come una foglia sotto il treno in ritardo, mi do l’Addio

martedì 3 gennaio 2012

Il divano e Silvia

Voglio rilassarmi, arrivare presto a casa e tuffarmi sul divano. Togliermi la cintura, allentare la cravatta e gettare le scarpe all’ingresso per essere libero di camminare scalzo. Invitare Silvia a sedersi accanto a me, abbracciarla e dirle quanto l’amo. Dirglielo tutti i giorni affinché non se ne dimentichi. Da quando siamo venuti ad abitare in questa casa, a marzo son due anni, riusciamo a scoprire l’armonia che c’è nello stare insieme durante la maggior parte delle ore. La convivenza non è la stessa pubblicizzata dalle fette biscottate o dalla pasta; certo, i bei momenti ci sono, e non pochi...voglio dire: non sono tutto. La situazione si complica. Per esempio capitava che qualche giorno il lavoro era parecchio, e tra le milioni di cose da fare, le scartoffie si accumulavano sulla scrivania del mio ufficio, la tensione cresceva. E come al solito arrivava il capo pronto a rimproverarmi con tono severo: << Ma allora? Stiamo perdendo tempo a bere caffè? Ti avevo chiesto quel fascicolo per le 11. Ti rendi conto di che ore sono, oppure vuoi che ti compri un nuovo orologio? O magari un nuovo paio di occhiali…porta avanti il tuo lavoro, adesso! >>. Cosa ci sarebbe stato di più utile, rispettoso e tagliente che un << Subito! >> dopo aver deglutito per imbarazzo o per rabbia. A volte il lavoro tanto si accumulava che si autoinvitava a casa, per essere esaurito e per esaurirmi dopo una frettolosa cena accuratamente preparatami. Silvia. Accarezzo i suoi dolci capelli biondi. Altro che ‘’dolce risveglio con le nuove fette biscottate’’, era evidente che dopo una giornata intera, il lavoro che riempiva le prime ore delle notte, il sonno arretrato, facevano sì che il silenzio e già la stanchezza aprivano le danze del mattino. << Cos’hai ? >> chiedeva allora la mia donna. Appoggiato sul tavolo della cucina facevo spallucce davanti ad una tazza di latte. << Mi raccomando, non fare tardi >> continuava in tono quasi materno lasciandomi un bacio sulla guancia su cui s’irrigidiva la barba lasciata ancora incolta. Scuotevo la testa in segno di negazione, e la vedevo chiudere la porta con la mano nella quale stringeva le chiavi della macchina. Allora mi rendevo conto che a volte la convivenza, il condividere lo stesso tetto, era complicato da forze maggiori che implicavano il mio ermetismo e probabilmente l’irritazione da parte di Silvia. E’ così protettiva nei miei confronti. Come fosse un impegno alleggerito dal sentimento, anche quello da ricambiarmi. Ah, quanto l’amo, certo che l’amo. Specie quando è solita poggiare la sua testa sulla mia spalla destra, addormentata. Quando siamo insieme, mano nella mano, questo divano sul quale vorrei rilassarmi…
Peccato costi intorno ai € 3.000 e io non posso far altro che immaginare tutto questo al di là della vetrina fredda per l’inverno. Al di là della vetrina nella quale si riflettono i miei pensieri che alitando su di essa non riescono a far altro che disegnare un cuore nel quale scrivo : Silvia.