mercoledì 25 gennaio 2012

Il vicoletto delle Vergini

Magrissima. Sottile appariva sotto quel vestito bianco, nuziale.
Pallidissima ed emozionante, rosea sulle gote. Verdi i suoi occhi languivano quando volgeva lo sguardo indietro quasi nascondendosi dietro la spalla.
Migrava col pensiero a stormi verso la nuova casa, e il nuovo marito che avrebbe raccolto il suo fazzoletto bianco, lasciato cadere, ceduto in sposa. Era un’ Esposta. Figlia della Madre e di Dio. Figlia della Terra e del Destino. Figlia di nessuno.
Stava per lasciare il convento, quello da cui 17 anni prima fu accolta, e sorridente, le fu messo nome Giulia.
Suor Virginia era in limine, con le mani giunte in orazione, lacrimante. La guardava riporre le sue cose nel baule sotto il letto, piegava il maglione di lana e la sua gonnella lunga fin dopo i ginocchi, e poi la divisa da orfana.
Quando Giulia si accorse che colei che l’aveva più accudita di tutte la osservava, si fermò un attimo. Si guardarono da lontano intensissimamente, come si guarda una madre quando si va via, come si guarda una figlia che lascia la casa. Così, a distanza, quasi per mantenere quel rispetto che c’era stato, quell’affezione primordiale silenziosa, aulica spoglia di gesti, parole ed effusioni; carica di tensione, cordialmente vestita di virtù divina.
Suor Virginia sospirò. Guardò al cielo come per fermare le lacrime.
<< Vai via oggi, figlia mia? >>
La ragazza, raggirò il letto e le andò vicino. Le carezzò il volto, le prese le mani nelle sue e, come segno di ringraziamento e abbandono, l’abbracciò.
Attraversava le camere e il convento tutto: il chiostro in cui rincorreva il pensiero di sé bambina, solitaria e taciturna, meravigliata di ogni cosa e del verde muschio che s’aggrappava alla rocce e al pozzo; il dormitorio; la cucina di donna Giovanna in cui si sentiva ancora l’odore delle lenticchie e lo scoppiettar della legna in forno, dove cuoceva il pane quotidiano. Salutò tutti e tutto, s’avviò al cortile dell’Annunziata ancora barocco, lasciandosi dietro le arcate e le sculture dell’annuncio a Maria Vergine.
In via Nuova, fuori del convento, l’aspettava lo sposo e la sua nuova vita.
Per la campagna, dove sorgeva un casolare spezzato dai raggi del sole vespertino, arancione, e dalle nuvole sparse che predicavano pioggia, si immischiavano i suoi ricordi di un passato nell’aspettative del futuro.
Ernesto Guerra, quel 15 di Aprile 1942, raccolse il fazzoletto di Giulia, prima che esso si dispiegasse al suolo. Era un uomo apparentemente dolce, dalla personalità deviata, controversa, corrotta, contorta e che contorceva lo stomaco altrui. Elegante, col ciuffo che maniacalmente si pettinava e gettava all’indietro. Gli occhi sbarrati e le intrigate trame dei suoi capillari scleracei mostravano il suo carattere instabile, mutevole, multiforme e informe, nascondevano il nascere inspiegabile di un mostro spietato e pazzo! Era di una bellezza svuotatrire, ingannevole, misteriosa. Giulia lo adora religiosamente, tanto da annullarsi: un annullamento che la rendeva vulnerabile, quasi vuota, tersa. Amava uno squilibrato, uno sconosciuto, soltanto per la sua bellezza.
Era raro che le figlie della famiglia delle Esposte riuscissero a coniugarsi con una simile bellezza, gli aspiranti non erano certo di buona famiglia, ma erano uomini soli, maledetti, ubriaconi, zoppi, gobbi, distorti, spostati, forestieri, ladri, malviventi.
<< Preparami qualcosa di buono per cena! >> le disse Ernesto.
Operosa lei svolgeva il suo compito di moglie, e subordinata. Per i primi tempi si mostrava rispettosa e lavoratrice, osservava i comandamenti dettatele dal marito. Lo studiava, era dapprima affascinata dal suo aspetto, poi quotidianamente cercava di insediarsi e scorgere nelle pieghe del suo io, tortuosissime, inspiegabili.
Particolare fu l’episodio di una sera invernale.
Era una notte fosca, ansiosa, la nebbia sparsa circondava come nuvole basse il casolare; la luna ululante si spezzava tra i rami degli alberi nudi. Giulia era a letto, tra le lenzuola spiegazzate su cui posavano le ombre trasversali. Udì in lontananza un’automobile che rigava la terra della campagna, e dei cani rabbiosi corrergli dietro e abbaiare. I fari spezzavano l’inquieta quiete. Ella s’alzò per affacciarsi alla finestra: era Ernesto. Non diceva mai dove andava, ritiravasi stonato e maledetto, cogli occhi solcati e pungenti. Quell’uomo, se pur bello d’aspetto, affogava molti segreti, spaventosi, tesseva trame intriganti, aggrovigliate come ragnatele, che metteva insieme fatti, cose, persone come statue mute che esplodono, lasciando cocci sparsi, difformandosi morendo.
Ernesto Guerra era il nome di un assassino, era il nome di suo marito, di un uomo che, prima di diventare uomo, fu maltrattato da sua madre. Fu rinchiuso per sette anni in uno scantinato, perché in quella famiglia di dodici figli era di troppo. Il padre soltanto non volle abbandonarlo, né ammazzarlo, né rinchiuderlo in un orfanotrofio. Era un Guerra, e un giorno, qualora fosse sopravvissuto, avrebbe portato avanti il suo nome. Gli fu privato ogni affetto dalla madre che lo guardava sempre con ribrezzo e disgusto, altezzosamente avvolta nel suo grosso scialle nero, e il mento rivolto in su, indifferente. Ricordava quegli anni come traumatici, quello scantinato umido e gocciolante divenne il suo mondo e la fabbrica in cui lavorò alla sua violenta meccanica. Fu poi adottato da una zia paterna, la quale non riusciva a avere figli, dopo il venticinquesimo anno di matrimonio. Crebbe, e gli fu affidata la casa in campagna. I suoi assassinii erano regolati dall’odio: far fuori quanti gli ricordavano quegli anni e quei familiari assassini. Uccideva il simile, credeva di uccidere il ricordo, credeva uccidendo di privarsene materialmente.
Quella sera tornò mostruoso, affannato. Si poggiò sul camino che gli arrossì il volto su cui s’affacciava il ciuffo straordinariamente sudato e scomposto, fissava il fuoco, ansante e dannato.
Giulia, che a piedi scalzi sotto la veste da camera, s’era messa ad osservarlo inquietata, realizzò che uomo fosse, suo marito. Si lasciò cadere a terra, strusciandosi con la schiena al muro, spaventatissima alla vista di una revolver che grattava la tempia di Ernesto.
Tornò stordita a letto, sembrava privarsi dei sensi ad ogni passo, molle, leggero, silente. Decise di non parlarne mai, accettando la sua condizione di moglie e di serva. Il suo silenzio di rassegnazione, pareva un atto di complicità che mai si risolse.
Le cose da quella sera molto cambiarono. 

lunedì 16 gennaio 2012

Igor

Igor. Si chiamava Igor. Biondo. Igor era biondo e aveva gli occhi azzurro chiaro, nei quali racchiudeva tutto il gelo della sua Russia. Non so perché lo portai a casa mia. Lo vidi una sera dicembrina buttato sul tavolo della birreria in via D’Annunzio. Sembrava ubriaco e stanco. Dormiva. Entrai per prendere da bere, per subire l’effetto dell’alcool che ti riscalda e per annegarci dentro tutti quegli inutili pensieri senza capo né coda, senza un senso, che si mescolavano in me come il fumo freddo che usciva dalle bocche ansanti di fuori. Erano le ventitre e tre quarti, e tutti i tavoli erano occupati << tranne quello laggiù in fondo >> mi indicava il cameriere << è per quattro persone, ma quell’uomo ha occupato due posti per come sta lì buttato. Avrà bevuto parecchio: fanno tutti questa fine a quest’ora. Gli stranieri poi…vorrei sapere chi ce li manda quelli! >> . C’eravamo intanto avvicinati al tavolo. Cauto e con gli occhi sbarrati per l’orrore mi tenevo a distanza dal tavolo e dall’uomo, biondo nei capelli spettinati. Aveva la testa appoggiata sul braccio, effettivamente sembrava disfatto, morto, soprattutto dalle mani molli, pallide, quasi gelide e semiaperte, con l’indice che puntava al boccale di birra un po’ scostato, il cui fondo aveva tracciato una scia sul legno. Era pieno e si poteva notare la schiuma bianca esauritasi sull’orlo, con ancora qualche bollicina che si rincorreva in superficie. << E’ pieno ! >> dissi a voce alta. << Eh? Che dite? >> si voltò il cameriere, << No, nulla, vedo che il suo boccale è ancora pieno! >>
<< Sarà il quarto o il quinto o il sesto, tramortito non ce l’avrà fatta ad iniziarlo…>> . Il cameriere cercò di spostarlo verso il limite, e con tanta sicurezza come fosse un barelliere che da’ movimento ai corpi morti, cosciente e meccanico nel suo lavoro, rigido. Gli fece assumere una posizione quasi composta, prese una pezza dal tascone del suo grembiule nero e ripulì il tavolo: << Ecco! è l’unico posto, mi spiace, appena si libera qualche singolo la faccio chiamare.>>
<< Grazie ! >> risposi in fretta a capo basso. Ero completamente distratto ed inquietato dalla scena macabra che avevo davanti agli occhi; volevo reagire, fare qualcosa, smuovere l’uomo che avevo di fronte e del quale non conoscevo ancora nulla. Cercavo di capire come si era ridotto in quello stato, da dove veniva, dove andava e se come me cercava risposte nel fondo di un boccale di birra o di un cicchetto. Questi pensieri venivano disturbati da un rumore sordo, da versacci, da sillabe distorte e senza forma: << Allora? Le porto qualcosa o preferisce contemplare questo scempio? >>. Alzai gli occhi infastidito, ancora distratto : << Assenzio. >>
Il bicchierino arrivò sul tavolo prima sbattendo e scivolando poi, toccando l’uomo che nel frattempo si era adagiato di nuovo sul tavolo, al limite, con un braccio penzoloni tra le gambe. Dovette sembrargli uno scossone, si agitò, spaventò, disse qualcosa che fu poco chiaro anche alle sue stesse orecchie. Convulso si svegliò. Mi guardò imbarazzato con gli occhi sbarrati. Rimasi immobile a guardare, vuoto. L’assenzio ondeggiava come un mare in tempesta, lo lasciai agitarsi senza toccarlo. L’uomo intanto si asciugava la bava procuratagli dal sonno con la manica del maglione di lana porpora, consumato, invecchiato un po’. Non aveva del tutto preso coscienza: me ne accorsi quando, dopo quel gesto, rimase a fissarmi senza riuscire a ragionare, con gli occhi che correvano velocissimamente a destra e a sinistra socchiudendosi. Per un momento avvertii un grave brivido che mi percorreva lungo tutto il corpo, svuotandomi. Scossi la testa piegandola tra le spalle.
<< Serve aiuto? >> gli domandai. Non riusciva ancora a capirmi o forse non mi capiva affatto.
Decisi di farlo alzare per sgranchire le gambe. Buttai la schiena all’indietro trascinando la sedia sul pavimento ruvido. Stridente fu quel rumore. Mi avvicinai a lui, senza sapere cosa stessi esattamente facendo. Gli presi un braccio, floscio, mi guardò dal basso pietoso, quasi grato. Feci forza sulle mie ginocchia e lo invitai ad alzarsi. Facemmo qualche passo e uscimmo dal locale. Il freddo gli punse gli occhi che lacrimando sembravano sciogliersi, si abbracciò e strofinò le braccia..ah, l’aria fresca!
<< Va un po’ meglio, vè? >> sorrisi. Annuiva.
 << Da dove vieni? >> domandai,
 << da Russia >> rispose << cerco posto per una notte >>.
Non so se fu la pietà per la condizione in cui l’avevo trovato o cos’altro che mi fece dire precipitosamente << Andiamo! >>

Giungemmo a casa. Accesi le luci e lo invitai a sedersi.
<< Mi chiamo Igor. >> sentii alle mie spalle mentre appendevo il cappotto all’ingresso. Con le braccia ancora su, girai il capo a metà. Restando fermo per qualche secondo, come per meglio ricordare il suo nome. Il soprabito rimase appeso che ondeggiava.
<< Ah! Piacere di conoscerti >> disse la nostra stretta di mano.
<< Grazie per quello che fai per me >>
<< Figurati! Se hai bisogno di qualcosa…da quand’è che sei in Italia? >>
<< Forse un mese >>
<< Cosa sei venuto a fare qui? se posso chiedertelo..>>
<< Sono scappato da mio paese. Sono venuto per trovare lavoro, per diventare uomo nuovo, per cercare posto migliore. >>
Mi accorsi che era tutt’altro che ubriaco. Mi raccontò che s’era addormentato su quel tavolo dopo aver ordinato il boccale di birra. Aveva vagato tutto il giorno, dall’alba in cerca di un lavoro dignitoso che non prevedeva schiavismo, lavoro nero, e sottopaga. Proveniva da una famiglia russa benestante, che aveva perso la casa a causa d’un incendio appiccato dal suo datore di lavoro, il quale lo aveva licenziato perché sua figlia, Anna, aspettava un bambino dallo stesso Igor. Tutte le agenzie per le quali avrebbe potuto lavorare gli chiusero porte in faccia, il signor Peter Kozlov era il più potente di tutti. Così prese a raccontarmi la sua storia quella sera, fino a notte fonda. Non aveva aspirazioni: aveva tagliato le gambe ai suoi sogni rimasti a morire da qualche parte. Viveva alla giornata come fanno molti, incerto, spaventato, insicuro, incapace di quello che gli avrebbe serbato il futuro. Eppure quella sera riuscì a darmi un forte senso di umanità per lo straniero.
Uno straniero che veniva a cercar calore umano, conforto, riparo.  
Uno straniero che era solo.
Uno straniero che portava negli occhi il ghiaccio della Russia.
Uno straniero che aveva gli occhi di un uomo.

mercoledì 4 gennaio 2012

Gli Addii

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
All’ansia della partenza, alla paura di fare tardi e di essere immerso in un “cambio vita radicalmente” è quasi necessario che si aggiunga anche la rabbia per Trenitalia. Sempre in ritardo noi italiani! anche i nostri treni.
Devo avvertire il sig. Giulio di spostare l’appuntamento per questa sera, e semmai di lasciarmi le nuove chiavi di casa da qualche parte. Figuriamoci! Nemmeno conosco il mio padrone di casa e sono certo che si sarà già fatta un’idea sbagliata su di me. Lasciarmi le chiavi di casa. Dove poi? Crederà che sono inaffidabile, superficiale, approfittatore. Adesso lo chiamo e gli dico di vederci domattina presto.  Mi toccherà prendere una camera in qualche fetido e decadente albergo con questi pochi soldi che mi son portato dietro. Che sarà mai, dopotutto, una notte?
Devo cercare assolutamente qualche panchina su cui sedermi per compilare i moduli. Il ritardo del treno mi permetterà di finire anche questo libro che ho iniziato settimana scorsa. Dove l’ho messo? Dov’è finito? Mi sa che cambierò anche questa vecchia borsa, oltre alla casa. Trovato.
E’ sempre opportuno portarsi dietro qualche libro quando si entra in una stazione italiana, non per il viaggio durante il quale sono particolarmente preso dal guardare il paesaggio e ogni personaggio che passa nel mio vagone. Si incontra parecchia gente strana, bizzarra, ma anche normale, comune, bella. Insomma gente proveniente da ogni classe sociale, se n’è rimasta qualcuna, o comunque gente povera e ricca, alta e bassa, grassa e magra, bionda e nera, pallida e scura e olivastra, ceca e zoppa, giovane e mezzana e vecchia.
Un libro è sempre utile per tappare questi maledetti ritardi. O ci si abitua o ci si abitua. Noi italiani siamo un popolo di conformisti, e ci piace. Sì, ci arrabbiamo, ci indigniamo, ma ormai la nostra lamentazione è pari ad un belato di pecore che segue il gregge, che lo segue rassegnato pur sapendo di essere condotto infondo al burrone.
Mi sto perdendo troppo. Devo ricordare ai mie panni vecchi di adattarsi e abituarsi al nuovo armadio. Chissà come si sgualciscono qua dentro, in questa valigia.
Pagina 63, ecco dov’ero arrivato. Ma io proprio non ce la faccio adesso a leggere. Mi sta prendendo un’ angoscia e una malinconia, un magone alla bocca dello stomaco, una morsa che mi stringe la gola. Sarà il tempo che si starà facendo più cupo. Sarà il sole che mi ha privato della sua luce perché mi togliessi quell’espressione accigliata dal volto e distendessi lo sguardo intorno. La stazione. La mia stazione. Sto per partire e questa è l’ultima volta che ci metto piede. Per un attimo ho creduto che il treno sia sua complice, che come un personaggio che si sente indiscreto, si ferma in disparte e guarda da lontano mentre qualcuno mi si avvicina intenzionato a dirmi qualcosa di importante. E’ la stazione, è lei che come una vecchia amica dai capelli grigi, e ondulati per il vento della velocità, mi vuol dire: “ Addio. “

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
<< Mi scusi saprebbe dirmi qual è il binario per il regionale 1103? >>
<< Puoi controllare su quel tabellone lì affisso…>>
<< Sì, ho dato un’occhiata ma.. questo treno per il tabellone non esiste! >>
<< Mmm..strano, dovrebbe essere aggiornato ! >>
<< Già, quindi lei non sa dirmi a che binario arriva? >>
<< Guardi, chieda in quell’ ufficio...>>
<< Va bene, la ringrazio! >>
“ Chieda in quell’ufficio “ ..facile. Un gioco da ragazzi. Come al solito chiedi un’informazione a qualcuno esperto nel suo campo e, cosa fa? Semplice: insofferenza per la richiesta, risposta evasiva e si rimanda altrove, da qualcun altro. Via. Via per aver disturbato la quiete cerebrale o per aver interrotto l’ultimo tiro tanto aspirato di sigaretta. Sembra che questa gente abbia il terrore, il trauma di essere domandati. Quasi non guardano negli occhi, restando con lo sguardo imbizzarrito che si sposta come una pallina di un flipper. Mah..
Qui c’è un bar…riecco l’entrata…questi sono i bagni…
Laggiù c’è un vecchio barbone, questo cattivo odore di orina sembra proprio provenire da quella parte. Che schifo! Sarà meglio che mi allontani e continui a cercare al lato opposto. Coi tempi che corrono se ne sentono in giro di notizie su barboni che stuprano le giovani donne. Successe anche a Luisa, qualche mese fa, tornando a casa, proprio davanti al portoncino. Un vecchio ubriaco la scaraventò sul vetro e, premendo su di lei con forza, fece sì che si rompesse.
Riecco i bagni…l’entr…
<< Ah! Attenta! Ma dove diavolo hai gli occhi? >>
<< Oh mio dio, perdonami è che vado di fretta, il mio ragazzo è lì sul treno che mi aspetta e sono molto distratta..>>
Come posso non riconoscere questo volto..
<< Oh Emma! >>
<< Stefania! Che piacere rivederti..perdonami non ti ho manco riconosciuta..>>
<< Eh già, sono passati parecchi anni da quando eravamo compagne di banco. >>
<< Mamma mia, quanto tempo! >>
Ricordo di quando ci scambiavano per sorelle, stavamo insieme sempre. Anche dopo scuola, nel nostro tempo libero, mi invitava a casa sua per ascoltare la musica e canticchiare stando sdraiate sul tappeto con le gambe poggiate al muro.
<< Ma dov’è che vai? E chi è il tuo ragazzo? >>
<< Piero, il figlio dell’avvocato del terzo piano. E’ lì sul treno che mi aspetta. Scappiamo! >>
<< Come sarebbe scappiamo? Non vorrei trattenerti più a lungo però, hai fretta vedo >>
Si allontana verso il treno, chissà dove scappano..
<< Andiamo via! Lontano da questa città. Via! Fuori! All’estero! In America o magari su Marte! >>
Grida salendo sul treno. Mentre saluta con un piede dentro e l’altro fuori, col cappotto verdaccio che le svolazza insieme ai suoi capelli castani, lunghi e sempre sciolti che si agitano per aria.
<< Mi ha fatto piacere rivederti ! A presto !! >> grido anch’io.
<< Addio !!! >>

“Il treno: intercity 6943 proveniente da Napoli Centrale e diretto a Verona: arriverà con 45 minuti di ritardo. Ci scusiamo per il disagio”
Una vita sprecata è la mia. Inutile. Ho vissuto per circa ottant’anni. Sperando di ritrovare la speranza. Sperando che le cose cambiassero. Sperando di ritornare a vivere. E’ tutto così vuoto, perso. Perso come il mio io che si aggroviglia e raggomitola su se stesso. Giacente su un fondo senza fondo. Privo di pensiero, di parola, di azione. Qual è la mia storia? Perché mi trovo qui? In questa stazione? E’ tutto così incerto e privo di senso ormai. Non ci sono più speranze per un vecchio come me. Un barbone. E’ questo quello che sono: un barbone. E ho faticato molto per avere una vita desiderabilissima come quella che avevo. La guerra! La guerra! Vorrei gridare a tutti: mettetevi al riparo, arrivano i nazisti. Le bombe! LE BOMBE! Stragi interminabili. Orrore. Violenza. Distruzione. Macerie. Sono una maceria. Un pezzo di muro scalcinato. Mi hanno portato via tutto, le mie opere, i miei scritti, i miei romanzi. Bruciati perché contro il regime. Ma quale regime? Quello dell’inferno! Ecco quale regime.
Quella ragazza che viene verso di me, assomiglia alla mia Amalia. La mia donna, che la guerra mi ha fatto vedovo. Chiudo gli occhi e mi ritorna in mente, con un quel suo lungo vestito nero. I guanti bianchi che soleva sfilarsi per pormi le carezze. La scalinata che scendeva con eleganza sublime. I suoi capelli raccolti in un fermaglio luccicoso, odoranti di primule fresche, luccicoso come le spille che mettevasi al petto di farfalle e gigli. Svanisce la sua immagine ad occhi aperti. Nessuno ascolterebbe più cos’ho da dire. Nessuno ascolta più noi vecchi. La devastazione che quegl’anni m’hanno portato nel cuore, fanno della vita un caffè senza zucchero, un bicchiere d’alcool che brucia in gola. Brucia questa vita. Il treno, e la mia morte, sono in ritardo di 45 minuti. Vagabondo ancora andando vedo che c’è ancora qualche giovane ch’occupa il suo tempo perdendosi in letture.
<< Accorto figliolo! Accorto a ciò che leggi…potrebbe essere pericoloso figliolo! Sta accorto!>>
Sono andato su e giù per le strade randagie. Cercando cibi e briciole nelle spazzature, tremante dal freddo mi riscaldavo con lo smog e coi gas che bruciavano le auto, oppure sotto i bassi lampioni. La guerra ha lasciato in me un segno profondo. Mi ha portato via tutto: le mie opere, i miei scritti, i miei romanzi. Bruciati perché contro il regime. Ma quale regime? Quello dell’inferno! Ecco quale regime. Nonostante abbia vissuto il “boom”. Nonostante ho visto figli di contadini schiacciare pomodori al suolo e gridare: << Padre, voglio studiare! Voglio studiare padre! ne ho il diritto! >>. Ho visto diventare case popolari le vecchie catapecchie rurali. Ho visto una traversata di automobili FIAT in fuga, girare intorno alla piazza. Ho visto cambiare gli abiti, giovani andarsene in giro con radio sulle spalle. Diventò la televisione a colori, si diffusero altri privati canali. Il consumo iniziò in quegl’anni a riempire le case di prodotti col marchio. Una discarica di cose usa-e-getta divennero le città, puzzolenti di benzina, grigie. La mia vita mi sembra essere passata tutta davanti, proprio come uno “spot” di 30 secondi, adesso che sono sommerso da tutto questo peso, adesso che sono cosciente di non avere più niente a cui essere legato, non ho motivo di ostentare la mia voglia di vivere. Sono rimasto per tutti questi anni solo, e accartocciandomi come una foglia sotto il treno in ritardo, mi do l’Addio

martedì 3 gennaio 2012

Il divano e Silvia

Voglio rilassarmi, arrivare presto a casa e tuffarmi sul divano. Togliermi la cintura, allentare la cravatta e gettare le scarpe all’ingresso per essere libero di camminare scalzo. Invitare Silvia a sedersi accanto a me, abbracciarla e dirle quanto l’amo. Dirglielo tutti i giorni affinché non se ne dimentichi. Da quando siamo venuti ad abitare in questa casa, a marzo son due anni, riusciamo a scoprire l’armonia che c’è nello stare insieme durante la maggior parte delle ore. La convivenza non è la stessa pubblicizzata dalle fette biscottate o dalla pasta; certo, i bei momenti ci sono, e non pochi...voglio dire: non sono tutto. La situazione si complica. Per esempio capitava che qualche giorno il lavoro era parecchio, e tra le milioni di cose da fare, le scartoffie si accumulavano sulla scrivania del mio ufficio, la tensione cresceva. E come al solito arrivava il capo pronto a rimproverarmi con tono severo: << Ma allora? Stiamo perdendo tempo a bere caffè? Ti avevo chiesto quel fascicolo per le 11. Ti rendi conto di che ore sono, oppure vuoi che ti compri un nuovo orologio? O magari un nuovo paio di occhiali…porta avanti il tuo lavoro, adesso! >>. Cosa ci sarebbe stato di più utile, rispettoso e tagliente che un << Subito! >> dopo aver deglutito per imbarazzo o per rabbia. A volte il lavoro tanto si accumulava che si autoinvitava a casa, per essere esaurito e per esaurirmi dopo una frettolosa cena accuratamente preparatami. Silvia. Accarezzo i suoi dolci capelli biondi. Altro che ‘’dolce risveglio con le nuove fette biscottate’’, era evidente che dopo una giornata intera, il lavoro che riempiva le prime ore delle notte, il sonno arretrato, facevano sì che il silenzio e già la stanchezza aprivano le danze del mattino. << Cos’hai ? >> chiedeva allora la mia donna. Appoggiato sul tavolo della cucina facevo spallucce davanti ad una tazza di latte. << Mi raccomando, non fare tardi >> continuava in tono quasi materno lasciandomi un bacio sulla guancia su cui s’irrigidiva la barba lasciata ancora incolta. Scuotevo la testa in segno di negazione, e la vedevo chiudere la porta con la mano nella quale stringeva le chiavi della macchina. Allora mi rendevo conto che a volte la convivenza, il condividere lo stesso tetto, era complicato da forze maggiori che implicavano il mio ermetismo e probabilmente l’irritazione da parte di Silvia. E’ così protettiva nei miei confronti. Come fosse un impegno alleggerito dal sentimento, anche quello da ricambiarmi. Ah, quanto l’amo, certo che l’amo. Specie quando è solita poggiare la sua testa sulla mia spalla destra, addormentata. Quando siamo insieme, mano nella mano, questo divano sul quale vorrei rilassarmi…
Peccato costi intorno ai € 3.000 e io non posso far altro che immaginare tutto questo al di là della vetrina fredda per l’inverno. Al di là della vetrina nella quale si riflettono i miei pensieri che alitando su di essa non riescono a far altro che disegnare un cuore nel quale scrivo : Silvia.