lunedì 16 gennaio 2012

Igor

Igor. Si chiamava Igor. Biondo. Igor era biondo e aveva gli occhi azzurro chiaro, nei quali racchiudeva tutto il gelo della sua Russia. Non so perché lo portai a casa mia. Lo vidi una sera dicembrina buttato sul tavolo della birreria in via D’Annunzio. Sembrava ubriaco e stanco. Dormiva. Entrai per prendere da bere, per subire l’effetto dell’alcool che ti riscalda e per annegarci dentro tutti quegli inutili pensieri senza capo né coda, senza un senso, che si mescolavano in me come il fumo freddo che usciva dalle bocche ansanti di fuori. Erano le ventitre e tre quarti, e tutti i tavoli erano occupati << tranne quello laggiù in fondo >> mi indicava il cameriere << è per quattro persone, ma quell’uomo ha occupato due posti per come sta lì buttato. Avrà bevuto parecchio: fanno tutti questa fine a quest’ora. Gli stranieri poi…vorrei sapere chi ce li manda quelli! >> . C’eravamo intanto avvicinati al tavolo. Cauto e con gli occhi sbarrati per l’orrore mi tenevo a distanza dal tavolo e dall’uomo, biondo nei capelli spettinati. Aveva la testa appoggiata sul braccio, effettivamente sembrava disfatto, morto, soprattutto dalle mani molli, pallide, quasi gelide e semiaperte, con l’indice che puntava al boccale di birra un po’ scostato, il cui fondo aveva tracciato una scia sul legno. Era pieno e si poteva notare la schiuma bianca esauritasi sull’orlo, con ancora qualche bollicina che si rincorreva in superficie. << E’ pieno ! >> dissi a voce alta. << Eh? Che dite? >> si voltò il cameriere, << No, nulla, vedo che il suo boccale è ancora pieno! >>
<< Sarà il quarto o il quinto o il sesto, tramortito non ce l’avrà fatta ad iniziarlo…>> . Il cameriere cercò di spostarlo verso il limite, e con tanta sicurezza come fosse un barelliere che da’ movimento ai corpi morti, cosciente e meccanico nel suo lavoro, rigido. Gli fece assumere una posizione quasi composta, prese una pezza dal tascone del suo grembiule nero e ripulì il tavolo: << Ecco! è l’unico posto, mi spiace, appena si libera qualche singolo la faccio chiamare.>>
<< Grazie ! >> risposi in fretta a capo basso. Ero completamente distratto ed inquietato dalla scena macabra che avevo davanti agli occhi; volevo reagire, fare qualcosa, smuovere l’uomo che avevo di fronte e del quale non conoscevo ancora nulla. Cercavo di capire come si era ridotto in quello stato, da dove veniva, dove andava e se come me cercava risposte nel fondo di un boccale di birra o di un cicchetto. Questi pensieri venivano disturbati da un rumore sordo, da versacci, da sillabe distorte e senza forma: << Allora? Le porto qualcosa o preferisce contemplare questo scempio? >>. Alzai gli occhi infastidito, ancora distratto : << Assenzio. >>
Il bicchierino arrivò sul tavolo prima sbattendo e scivolando poi, toccando l’uomo che nel frattempo si era adagiato di nuovo sul tavolo, al limite, con un braccio penzoloni tra le gambe. Dovette sembrargli uno scossone, si agitò, spaventò, disse qualcosa che fu poco chiaro anche alle sue stesse orecchie. Convulso si svegliò. Mi guardò imbarazzato con gli occhi sbarrati. Rimasi immobile a guardare, vuoto. L’assenzio ondeggiava come un mare in tempesta, lo lasciai agitarsi senza toccarlo. L’uomo intanto si asciugava la bava procuratagli dal sonno con la manica del maglione di lana porpora, consumato, invecchiato un po’. Non aveva del tutto preso coscienza: me ne accorsi quando, dopo quel gesto, rimase a fissarmi senza riuscire a ragionare, con gli occhi che correvano velocissimamente a destra e a sinistra socchiudendosi. Per un momento avvertii un grave brivido che mi percorreva lungo tutto il corpo, svuotandomi. Scossi la testa piegandola tra le spalle.
<< Serve aiuto? >> gli domandai. Non riusciva ancora a capirmi o forse non mi capiva affatto.
Decisi di farlo alzare per sgranchire le gambe. Buttai la schiena all’indietro trascinando la sedia sul pavimento ruvido. Stridente fu quel rumore. Mi avvicinai a lui, senza sapere cosa stessi esattamente facendo. Gli presi un braccio, floscio, mi guardò dal basso pietoso, quasi grato. Feci forza sulle mie ginocchia e lo invitai ad alzarsi. Facemmo qualche passo e uscimmo dal locale. Il freddo gli punse gli occhi che lacrimando sembravano sciogliersi, si abbracciò e strofinò le braccia..ah, l’aria fresca!
<< Va un po’ meglio, vè? >> sorrisi. Annuiva.
 << Da dove vieni? >> domandai,
 << da Russia >> rispose << cerco posto per una notte >>.
Non so se fu la pietà per la condizione in cui l’avevo trovato o cos’altro che mi fece dire precipitosamente << Andiamo! >>

Giungemmo a casa. Accesi le luci e lo invitai a sedersi.
<< Mi chiamo Igor. >> sentii alle mie spalle mentre appendevo il cappotto all’ingresso. Con le braccia ancora su, girai il capo a metà. Restando fermo per qualche secondo, come per meglio ricordare il suo nome. Il soprabito rimase appeso che ondeggiava.
<< Ah! Piacere di conoscerti >> disse la nostra stretta di mano.
<< Grazie per quello che fai per me >>
<< Figurati! Se hai bisogno di qualcosa…da quand’è che sei in Italia? >>
<< Forse un mese >>
<< Cosa sei venuto a fare qui? se posso chiedertelo..>>
<< Sono scappato da mio paese. Sono venuto per trovare lavoro, per diventare uomo nuovo, per cercare posto migliore. >>
Mi accorsi che era tutt’altro che ubriaco. Mi raccontò che s’era addormentato su quel tavolo dopo aver ordinato il boccale di birra. Aveva vagato tutto il giorno, dall’alba in cerca di un lavoro dignitoso che non prevedeva schiavismo, lavoro nero, e sottopaga. Proveniva da una famiglia russa benestante, che aveva perso la casa a causa d’un incendio appiccato dal suo datore di lavoro, il quale lo aveva licenziato perché sua figlia, Anna, aspettava un bambino dallo stesso Igor. Tutte le agenzie per le quali avrebbe potuto lavorare gli chiusero porte in faccia, il signor Peter Kozlov era il più potente di tutti. Così prese a raccontarmi la sua storia quella sera, fino a notte fonda. Non aveva aspirazioni: aveva tagliato le gambe ai suoi sogni rimasti a morire da qualche parte. Viveva alla giornata come fanno molti, incerto, spaventato, insicuro, incapace di quello che gli avrebbe serbato il futuro. Eppure quella sera riuscì a darmi un forte senso di umanità per lo straniero.
Uno straniero che veniva a cercar calore umano, conforto, riparo.  
Uno straniero che era solo.
Uno straniero che portava negli occhi il ghiaccio della Russia.
Uno straniero che aveva gli occhi di un uomo.

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