giovedì 16 febbraio 2012

La Rabbia

<< Non capisco perché ogni volta che arriviamo sotto casa della signora Margherita devi attaccarti allo sportello, allacciarti la cintura di sicurezza e alzare il finestrino! Sembra lo faccia apposta…capisco che è vecchia, e forse le sue storie e i suoi discorsi non ti interessano, infondo sei soltanto un ragazzino di otto anni, ma ti ho sempre detto che per educazione dovresti stare composto a sentire, almeno quando ti si viene rivolta la parola. Sei sempre distratto, teso, ti guardi intorno in continuazione, scatti improvvisamente, salti dalla sedia, si può sapere che ti prende? >>
<< Niente mamma..>>
<< Ma come niente? Come se non ti conoscessi..sono tua madre, ti osservo, io lo so. >>
<< Niente mamma…>>
<< Forse è quel suo grosso neo sul naso? E’ quello vero? E’ disgustoso, di’ la verità? C’ho fatto caso anche io, quando mi versa il the, devo stare bene attenta a non fissarlo troppo. >>
<< Ma dai mamma, è disgustoso, spaventoso anche quello..>>
<< Anche? Allora c’è dell’altro?! Avanti, dimmi, se non è il suo grosso neo allora cos’è che non ti fa stare quieto? >>
<< è…credo sia...per Lex..il suo cane! >>
<< Il suo cane? Lex? Perché dovrebbe farti paura? E’ quasi sempre invisibile, legato fuori, con la porta sempre chiusa, che se ne sta per conto suo..non vedo che problemi ti da? >>
<< Uhm…non lo so, è sempre così rabbioso, che mordicchia il guinzaglio, con il pelo arruffato, si agita in continuazione e cammina avanti e indietro senza pace. Ogni volta che andiamo da quella vecchia signora, lui si mette ad abbaiare e a graffiare i vetri, poi si ferma a terra, mi fissa e mi mostra i denti bavosi…fa paura! Ecco perché non ci voglio mai venire da quella! >>
Mia madre all’epoca non aveva compreso, né badava alla mia fobia dei cani. In fondo, non ero l’unico ragazzino di otto anni ad averne paura: ce n’erano degli altri che avevano avuto esperienze assai più traumatiche. Come Enrico che corse per tutta la fabbrica inseguito dal cane del falegname, spaventatissimo si guardava indietro affannato.
Adesso ne ho ottanta di anni, e sono a letto malato. Il dottore mi ha detto di restare a riposo per un po’ di giorni. Il mio letto è circondato dai miei figli, da mia moglie che si affanna a prepararmi il brodo caldo, che si arrende all’invito di mia figlia Anna: << Lascia mamma, faccio io, va’ da papà! >>; ci sono anche i miei nipoti. Ho soltanto un po’ di febbre, e tutti temono il peggio visti i miei anni. Io non mi preoccupo tanto, a vederli tutti qui, riuniti in questa casa che girano di stanza in stanza, e si incontrano come anime gentili e fraterne, sono fiero dei miei figli compiuti, realizzati. La malattia sembra mi abbia dato quell’ immobilità attraverso la quale vedo gli altri muoversi intorno. Ogni cosa è a suo posto. Ed è proprio dal mettere le cose in ordine che è iniziata la mia vita: dal desiderio di scoprire cosa c’è dietro ogni cosa. I perché mi hanno ossessionato e ispirato, sono la fonte ultima di un combinatorio ragionamento, un groviglio d’inspiegabili domande che conducono tutte a quella finale del “perché?”.
Ho pensato alla mia carriera quando avevo sedici anni. Quando ho visto mia madre morire ed essere vittima dello sporco gioco del caso! Tornava da fare la spesa. I suoi ritorni erano sempre puntuali. Mi figuravo i passi e i luoghi che attraversava quando si separava da me: “ ora sta aprendo il cancello…lo richiude…sale le scale..eccola passare davanti alla porta del Signor Paolo…ecco che i suoi passi diventano più affaticati..lenti..è fuori la porta..e…”
<< Sono a casa! >>
<< Ciao mamma!! >>
In genere indovinavo. Quel pomeriggio, nonostante le mie figurazioni, mi persi in qualche suo passo incerto. Era in ritardo. Mi alzai dal tavolo dal quale leggevo, e mi avvicinai alla finestra, e, attraverso i riflessi doppi e molteplici delle vetrate dei palazzi, cercavo la sua esile figura riflettersi. Il riflettersi fu di una scena orribile: un uomo armato rincorreva un altro gridandogli frasi scomposte e scomunicate. Mia madre sembrava essere accompagnata dal destino, spinta verso la sua fine, proprio in quel momento in cui partì un colpo. Il suo grido, le sue abbandonate braccia per aria, le sue gambe che si piegavano, il suo corpo disarticolato si affidavano alla morte.
Fu allora che scelsi di diventare un uomo che risolve i casi strani del caso, il caos creato dalla psiche umana che si risolve in atti disumani.
Cadaveri. Volti bianchi e sfregiati ho visto davanti agli occhi per tutta la vita. Erano gli anni in cui la violenza invadeva le strade italiane in un susseguirsi di atti quotidiani.
Mio nipote Filippo, siede accanto a me e mi chiede di raccontagli la mia storia:
<< Come hai conosciuto la nonna? >> chiede il giovanetto.
Gli sorrido e gli rivolgo l’occhio. Intanto un dolore mi prende al polpaccio, come un crampo. Per cui piego il ginocchio istantaneamente da sotto le coperte, e con la bocca digrignata e con un verso animalesco mostro a tutti quello che sto provando. All’alzarsi delle lenzuola, s’accorgono proviene dalla gamba. Smettono di parlare intorno, con lo zittirsi vicendevolmente vedo affievolirsi le loro parole, fioche e sottili si spezzano a metà nelle bocche tese. Cosciente di aver attirato troppa attenzione << E’ solo un crampo…tranquilli…sto meglio, è stato un momento. >> cerco di ridargli calma e rompo la sospensione. Mio figlio Pietro, il padre di Filippo, si avvicina e sistemandomi i cuscini che mi sorreggono la schiena mormora:
<< Cerca di stare dritto e composto, rilassati e distendi le gambe: non sei più un uomo forte, ormai hai una cert’età. >> lo guardo severamente come per ringraziarlo allo stesso tempo, si allontana.
<< Allora nonno, mi racconti qualcosa? >> Filippo parla alla mie orecchie, pone la sua mano così giovane e forte, sulla mia così vecchia rugosa e molle, come per destarmi dal dolore; come per ridarmi quell’armonia che avevo prima che qualcosa mi invadesse il corpo; mi parlava come per costruire una filiale intimità, come per entrarmi dentro e scoprire i miei pensieri più profondi che proprio in quei giorni di malattia s’erano affacciati e mi si agitavano dentro. Sembrava che quel ragazzetto che mi sedeva accanto riuscisse a leggere nei miei occhi, i quali erano riusciti a fuggire da quegli altri dei miei figli, i quali, pur essendo quotidianamente presenti ai piedi del mio letto, cercavano di allontanare da loro stessi il motivo reale di quelle mie condizioni. Il motivo reale di quelle mie condizioni l’avevo io stesso nascosto, a loro come a nasconderlo a me stesso. E Filippo risvegliava, e tormentava il mio abisso inspiegabile, incomprensibile; sembrava sapere nascondessi qualcosa.
Una settima prima che la febbre arrivasse, ospite indesiderata, tornavo a casa circa alle 2:00 di notte. Ero stato svegliato dal commissario Vitti, giovane amico, che mi destò dal sonno con un colpo di telefono: << Occorre la sua saggia esperienza per risolvere un caso, un delitto in Via Michelangelo, 3. L’aspetto per strada. Mi perdoni per l’ora…sa che il nostro lavoro è così imprevedibile. A tra poco. >>. Succedeva spesso che, pur essendo un vecchio in pensione, chiedessero il mio aiuto “speciale” per certe complicazioni. Ebbene, quella notte, mi vestii accuratamente ed elegantemente, non so perché scelsi con quella cura il mio maglione preferito, il mio cappotto nero e la sciarpa grigia avvolta casualmente intorno al collo. Mi recai presso l’indirizzo. Altro delitto, altro mistero. Quei cadaveri si accumulavano nella mia mente e durante la notte mi presentavano il loro orrore; spesso, nei miei incubi, assumevano volti familiari: mia moglie, i miei figli, mia madre col suo cadavere scomposto, mio padre; talvolta uno di quei corpi e volti diventavo io stesso. Domandai qualcosa agli agenti e al commissario Vitti, diedi qualche dritta su quale pista intraprendere e mi lasciarono andare. Impiegai circa mezz’ora per quest’affare.
Tiravo dritto per la strada semibuia della via parallela in cui avevo parcheggiato la mia auto. I lampioni narcisisti si specchiavano nelle pozzanghere nere. Invadeva il silenzio destato dai miei passi freddi e frettolosi, ai quali iniziò ad un tratto ad alternarsi un rumorio come gocce che picchiettano, e si fanno grosse e veloci in crescendo. “ Meglio che mi sbrighi prima che inizi a piovere di brutto “ pensai. Ma notavo che intorno era tutto asciutto. Quel rumore cresceva e in lampo mi tornò alla memoria di uno stesso, riconosciutissimo e spaventoso. Quello stesso rumore anni addietro mi invitava a correre più che potevo, a scappare via lontano, a nascondermi, a salvarmi. Erano unghie canine che graffiavano l’asfalto. Era il rumore stridente e vertiginoso delle mie inquietanti fobie. Era un mastino randagio, nero e grosso che sembrava mi fiatasse sul collo. Ansimava bavoso. Avanzava severo, mi seguiva. Divenni così frigido che muovermi significava frantumare le mie ossa. Un brivido mi scosse lungo tutto il corpo, tanto da portare lo sguardo in alto, verso la luna che spaventata si stava per nascondere dietro un lungo velo di nuvole. Ho visto molti cadaveri e molto orrore durante la mia carriera di detective ma niente, nessuna cosa, nessun corpo, nessun lago di sangue, nessun ossa rotte o fuoriuscite mi avevano inquietato così tanto quanto la vista di quel cane. Mi fermai. Si fermò. Mi guardò intensissimamente, e anch’io lo guardai con occhi terrorizzati. Iniziai a scappare senza realizzare che sarai andato incontro alla mia fine, senza badare al suo istinto di cane che segue chi gli corre avanti. I nostri corpi s’intrecciarono, mi afferrò il polpaccio coi denti che sentivo entrare nella mia carne, sanguinosa. Rotolammo a terra, finché con un calcio, nel quale caricavo tutte le mie paure e l’odio verso quell’animale, riuscii ad allontanarlo. Restai seduto a terra per un po’, alzandomi i pantaloni fino al ginocchio: il calzino era pregno di sangue che colava dai fori. Cercai di ripulirmi con un fazzoletto, e ricomposto i pantaloni tornai a casa. E’ curioso come il caso, a cui volli correre dietro per tutta vita, mi presentò la morte con una delle mie più grandi fobie: quella per i cani. Ed è curioso come la mia morte dovesse arrivare attraverso una malattia che ha principio da un morso di cane. Giorni seguenti mi recai dal dottor Giorgi, lo feci volutamente in ritardo. Ero traumatizzato dal fatto che si realizzò quella paura che avevo meditato in segreto, di cui avevo immaginato l’essenza, la quale mi tormentava e dava i brividi soltanto all’udire della parola, o alla vista di un, cane. Il dottore confermò solo quello che avevo già intuito da solo, e avevo tenuto nascosto ai miei figli e a Filippo; per tempo mi disse che non c’era niente da fare. 
Mi restavano pochi giorni di vita: avevo contratto la rabbia. 

mercoledì 1 febbraio 2012

Il Grammofono

Allora come sto? Forse se sistemo questa piega sulla giacca.. e abbottono il polsino della camicia bordeaux…ecco fatto. Meglio con la cravatta o senza? Proviamo. Complicati questi nodi: ma fa tutto un altro effetto. Sembro molto più elegante, mano in tasca, petto fiero, quasi di profilo << Buonasera Signorina! >>. Oddio! chi uscirebbe con uno come me, perché? Forse è meglio che tolgo la cravatta. Mi siedo a piedi del letto ed inizio ad agitarmi. Mi rialzo. Torno a guardarmi allo specchio: profilo destro, profilo sinistro, una scapigliata ai capelli, faccio luccicare le scarpe nere, mano in tasca e << Buonasera Sig..ehm ehm..>> meglio schiarire la voce << EHM…Buo..MMM...Buonasera…Signorina! >>  non va bene! troppo serio e formale. Mi siedo di nuovo, stavolta affranto. Non credo riuscirò mai a fare una buona impressione. E se non andassi all’appuntamento?
Forse sono stato troppo avventato a chiederle di uscire, non sono sicuro mi piaccia poi così tanto..sì, è carina, ma niente di che. Intanto tolgo la giacca e la sistemo sul letto, a metà, con la parte bassa che penzola. Sbottono il colletto della camicia, la mia preferita, la tiro fuori dai pantaloni e mi metto scalzo. Vago su e giù per la stanza, lentamente, con i calzini a strisce che solleticano il tappeto. Arrivo sbadatamente per la terza volta allo specchio, di profilo, per la terza volta. Le mani solitamente in tasca, annoiate. Sto meglio in queste condizioni. Anche i vestiti assumono il mio atteggiamento, quello naturale: sbadato, trasandato, irregolare, fuori dalla norma; infondo chi sceglie la norma? Chi dice che presentandomi in queste condizioni, magari anche scalzo se non fosse scomodo guidare e  camminare sull’asfalto, farei una brutta impressione? Sono così. Ho quest’aspetto. Mi accetto, mi va bene. E poi a me non va di far colpo su nessuno solo per essere stato, per una sera, elegante, raffinato, gentilissimo.
L’ho conosciuta all’ingresso del negozio in cui lavoro. Mi colpì il modo in cui spostava, imbarazzata i suoi morbidi capelli dietro l’orecchio, accennandomi un sorriso, chiedendo << Permesso >>
<< Prego >> cedetti il passo, distratto per essermi piazzato proprio davanti la porta. Ne entrano tante di ragazze nel negozio della signora Lucia ma, forse perché quel pomeriggio non c’era molto da fare, ed aspettavo qualcosa di sorprendente che scuotesse il tempo per affrettarlo, ella riuscì a prendere parte nei miei pensieri per un po’ di tempo, giusto quello in cui la osservavo studiare gli oggettini, e riporli delicatamente al loro posto. Quando ebbe pagato, si avviò alla porta, che stavolta avevo occupato apposta, a gambe divaricate  << Le andrebbe di uscire? >> .
Ecco così su due piedi, avrebbe detto di no. E così fu. Allora come è possibile che questa sera ho un appuntamento con questa ragazza? Al negozio passò dopo una settimana, e poi tre giorni dopo, e poi due giorni dopo, e poi il giorno seguente; finché per una scusa o per un'altra, per prendere questa o quell’altra cosa, la sua fu una visita giornaliera.
Passò qualche mese e precipitandomi prepotentemente davanti alla porta le riproposi: << Le andrebbe di uscire? >>, avevo un sorriso da ebete, facevo tenerezza, forse è per quello che dopo essersi fatta una grossa risata, nascosta da una mano, scosse la testa sorridendo in segno di negazione ma accettò << Volentieri! >>.
Sospiro. Per radio inizia una musica, decisamente vecchia accompagnata dal segnale disturbato che mi distrae dal decidere di cosa fare di questa serata. Mi avvicino. Il segnale si fa sempre più disturbato, intricatissimo e stonato. La pioggia di fuori che picchia sulla mia finestra è preannunciata da un forte tuono, prima ancora da un lampo che illumina di dentro tutta la stanza. Forse è per il maltempo che non riesce a trovare la giusta frequenza. Quand’ecco che la radio diventa un vecchio grammofono di legno. La musica anni ’40 si fa più intensa e fuoriesce alta. Mi ritrovo di fronte all’asta di un microfono, quasi spaesato, una luce gialla e tonda m’illumina e sono al centro della scena. Di fronte un pubblico è seduto tra i tavolini tondi, che consuma coppe di champagne. Il sassofonista dietro di me mi fa cenno col capo. La mia voce, incontrollabile inizia a cantare intensamente e con passione, una canzone jazz le cui parole inglesi “ I love you, so much love you…always ” sono rivolte alla donna che mi siede davanti. Elegante, raffinata, composta, fine. E’ la mia Irene. Irene, Irene che ho sempre amato e che non ho mai incontrato. Anche il suo volto è in ombra, ma riesco a percepire quello che prova per me, quello che vorrei provasse, le cure che mi offre, le attenzioni nobili che non posso altro che ricambiare dedicandole ad occhi chiusi “ I love you, so much love you…always “.