martedì 20 marzo 2012

Il Fausto (parte I)


Non avrei mai pensato di scrivere la storia della mia vita. Dover partire dal “ nacqui il…il giorno tal…in tal luogo” sembra a me per primo poco interessante e alquanto noioso: sarebbe come andare all’anagrafe e leggere i miei documenti ormai ingialliti ed impolverati. Per una parte ho condotto una vita piuttosto normale: se per normale s’intende che a circa diciannove anni ho intrapreso gli studi giuridici e una volta laureato, come tutti i giovani laureati della mia generazione, mi trovavo a dover far fronte al famigerato “mondo del lavoro” del quale si avvertiva il peso schiacciante sulle spalle. Ero un laureato che faceva rima col precariato. 
Partire dagli studi intrapresi, se anche presentassi tutto il mio curriculum vitae, neanche mi sembra una buona idea, ma forse risulta abbastanza necessaria per mettere in chiaro a me stesso il perché mi trovo nella mia situazione attuale. Volevo diventare un avvocato. Un avvocato che difende i più deboli, che interroga e confuta i vari articoli costituzionali, che ricerca nelle leggi quel compromesso tra verità e libertà; uno di quelli che prende a cuore le situazioni dei suoi “pazienti”, che cerca di psicanalizzarli anche, per capire fino in fondo le ragioni del comportamento umano, per segnare una linea marcata tra il bene e il male, per ristabilire quell’ordine originario e naturale che conduce gli uomini intelligenti alla più alta moralità. Era questo che volevo essere. 
Quel pezzo di carta mi permise l’accesso ai grandi e piccoli studi d’avvocati che, per ragioni ancora ignote e forse assurde, come nascoste da qualcosa di inconcepibile o da qualcuno di estremamente potente, s’erano arricchiti e conducevano “la bella vita”: ville, macchinoni, viaggi, affari, conti in banca, donne. Di certo era anche questa la mia ambizione, sicuramente secondaria, non disdegnavo affatto il giorno in cui avrei condotto quella vita. 
Fui nello studio dell’ “Avv. Torinesi”, (letto sul citofono, sul campanello, e fuori la porta, ovunque sembrava si ostentasse quell’apposizione) un omone grasso, tondo in viso e sempre con le gote infiammate sia in estate che in inverno. 
- Cerchiamo persone preparate innanzitutto. Lei è agli esordi leggo.. – mi guardò da sopra gli occhiali spostando verso destra quei quattro-cinque fogli uniti da una graffetta di metallo. 
- Sì, mi sono laureato da pochi mesi, quindi ho ancora viva quella fiamma e quella voglia di fare, di inaugurare la mia carriera..come può leggere dal terzo foglio sono stato presente a tre cause importanti, le quali mi hanno permesso qualche intervento ben ascoltato dal giudice che ha sentenziato innocente il cliente dell’avvocato Martucci di cui ero portavoce e collaboratore. Insomma, non dico che il mio intervento sia stato un atto eroico, ma, vede, la mia mente è ancora pregna di tutto lo studio effettuato in questi anni, per cui sono riuscito molto bene a resuscitare quegli articoli spesso dimenticati, gestendo e dimostrando così l’innocenza del cliente. 
- Molto bene. Nel mio studio sono presenti i migliori avvocati della città, lei questo lo sa. Sa che il nome Torinesi è subito seguito da “quel grande avvocato” – e qui si disegnò sulle sue labbra un ghigno di presunzione, seguito da una fine risata che serviva ad enfatizzare e far riflettere sulle ultime parole dette dal grassone autocompiaciuto. Emise una greve inspirazione e tornando serio riprese – non si aspetti però, che da quando, eSE, soprattutto – sul “se” alzò, come per darsi un acuto, il suo indice cicciotto – sarà assunto lei sia già all’altezza di tutti quanti gli altri qui dentro, specie alla mia! – un’altra risalta di autocompiacimento stavolta seguita da un forte colpo di tosse, come se le parole dette di troppo avessero occupato l’aria circostante che diventava viziata, e la sua gola. 
- Capisco benissimo. – risposi rimanendo composto, seduto al posto in cui mi disse d’accomodarmi. 
Una forte stretta di mano ci divise. 
Dopo qualche settimana fui richiamato e tra raccomandazioni superbe e severi avvertimenti, l’avvocatone mi assunse. Per i primi tempi fu dura accettare la mia condizione di..non so bene di cosa mi occupassi, o meglio: non so bene quale nome avesse la mia occupazione di..”fascicolatore”.
Ero impegnato a sistemare cronologicamente i fascicoli delle cause, in degli scaffali di legno alti che andavano dal “1995” al “2011” (ultima causa vinta l’anno prima). All’inizio allontanai i miei pensieri da qualsiasi tipo di lamentazione, accettavo questo lavoro da buon ‘gavettiere’ sognando ancora di ascendere e ambire ad un ruolo sempre più importante. Dall’alto della scala a pioli poggiata sull’alto scaffale osservavo come gli altri svolgevano il proprio lavoro. Avevano tutti delle grosse scrivanie in stile liberty, sulle quali erano poggiate delle lampade verdi e dorate ai contorni, le quali illuminavano inchinate, schiave, umilmente le cartacce e i grossi codici civili sui quali le schiene degli impiegati si piegavano: erano quattro in tutto. Tre uomini e una donna che, terzi nella gerarchia di quello studio, cercavano e costruivano specchi altissimi su quali far arrampicare Osvaldi e Firmoni, secondi a “quell’ avvocato grande” di Torinesi. Ultimi, io e Nina la segretaria, una donnetta sui trenta che solevo immaginare aggrovigliata tra i fili ricci del telefono, le lettere, i registri degli appuntamenti e la burocrazia. I suoi tacchi e la sua voce squillante rumoreggiavano sul pavimento e per le stanze dando ritmo alla vita lavorativa. Era lei che portava profumo e colore attraverso i suoi larghi maglioni rosa, i suoi foulard lunghi e leggeri e i suoi freschi capelli castani, ondulati. Tra di noi si instaurò un buon rapporto di complicità: primi ad arrivare, ultimi a finire. E non nascondo che tra quelle chiacchiere scambiate in solitudine intimità, mentre mi passava ora questo ora quel fascicolo ancora da sistemare e riporre nello scaffale, mi nacque il pensiero di un ipotetico innamoramento. Certo è che capitava spesso di arretrarci il lavoro apposta per restare soli a finirlo e per chiuderci alle spalle la porta di quell’immorale studio mentre le nostre borse venivano messe a tracolla, mentre la chiave compiva piroette in serratura. E’ anche capitato che scendendo le scale debosciati le abbia chiesto imbarazzato con le mani in tasca e le spalle in su – Ti va una birra al pub? – e lei aggiustandosi ora i capelli ora l’orecchino avesse risposto – Certo! 
Tornavo a casa quasi sempre stanco. Nel mio appartamentuccio di pochi metri quadri nel quale vivevo solo, mi gettavo stanco sul divano, sdraiato con le mani dietro la nuca riflettevo sul lavoro svolto, e mi sembrava ancora lontana l’idea e la mia forma di “avvocato morale che difende i più deboli”. Cercavo di capire quale funzione svolgessi in quello studio e per quanto ancora mi toccava svolgere quelle stupide mansioni. Bramavo il tribunale, mi vedevo vestito in toga nera con corde appese che si agitavano al mio agitarmi. Quanto ancora doveva durate quella “gavetta”? Quando profonda era? Quando e chi stabiliva che si fosse riempita? Precipitavo nel vuoto con questi interrogativi, lo stesso vuoto che avvertivo abbandonandomi al sonno. 
Passai diversi mesi a scoprire i sotterfugi e gli intrighi che circolavano sotto quella grassa firma “Torinesi”. 
- Sono importanti gli affari, caro giovine. Non importa se il cliente ha torto o ragione: lui viene qui, nel più grande studio d’avvocati..paga..e noi dobbiamo difenderlo! E’ il nostro lavoro: è il comandamento primo degli avvocati. E’ in questo modo che si fan soldi: vincendo cause. Lascia stare la giustizia, la morale, il torto, la ragione. Per gli avvocati bene e male non esistono! ..I soldi! 
Da queste parole pronunciate con fervore e quasi in intimità, come in confessione di un segreto, i pensieri che cercavo sempre di sopprimere vennero a svegliarsi come crudele verità che divorava la verità ideale. Lontano ero da quei ‘comandamenti’, mi sentivo spaesato dopo quel discorso, confuso, afflitto, sconfitto. Inetto. 
Pensai inoltre a come poter reagire. Dovevo mandare giù quel boccone amaro e restare in quello schifo oppure sputarlo e cercare dell’altro? La mia doveva essere una scelta ben ponderata. Ero contrastato: restare significava accumulare ‘punteggio’ e fare esperienza più o meno diretta; andarsene significava mettersi alla ricerca di un nuovo studio che equivaleva a dire ricominciare da capo. 
Le giornate trascorrevano per inerzia, senza troppo badare a queste cose, sembravo nascondere a me stesso una situazione che in realtà mi soffocava, mi spogliava dall’essere io. Eseguivo gli ordini muto, ero seriamente in crisi, non sapevo più cosa era giusto per me, cosa avevo sempre desiderato. Era necessario scardinare l’ideale, spodestarlo dal suo trono alto e morale. Era necessario occuparsi dell’altra verità. Accettai questa condizione: finendo da “fascicolatore” a “schiena gobba”. Ad un anno e mezzo di distanza dalla mia assunzione, regalarono anche a me una larga scrivania e la lampada verde.  Sono sempre stato uno che amava la vita, che doveva viverla a pieno lasciandosi trasportare dal flusso in continuo movimento. Sono sempre stato in armonia con me stesso, con la mia vita e con il mondo, ma da quando in studio subii il cambiamento, e da quando ascoltai quelle inquietanti parole che mi iniziarono a turbare, pensavo intensamente che la mia vita non avrebbe avuto più molto senso, non mi sentivo affatto realizzato e per questo motivo la morte di un’insignificante vita, quale quella che conducevo e avrei continuato a condurre, m’invadeva i pensieri. Mi dannavo soprattutto la sera, in solitudine, quando mi esiliavo da tutto e tutti: a quei tempi, nemmeno il pensiero di Nina più mi distraeva e rendeva felice: ci allontanammo. I nostri sguardi, non più complici, si evitavano nello stesso momento in cui si cercavano. 
Fu una di quelle solite e dannate sere che la mia vita cambiò profondamente. 
Era alla fine d’autunno. Il vento che soffiava forte spazzò via quasi tutte le foglie marroni dagli alberi, nell’aria si vedevano alzarsi polveri barocche, tornanti e uraganiche. I sospiri del vento s’innalzavano ad inni, era come il canto delle sirene: più m’allontanavo dalle finestre bianche più il fischio aumentava come a chiamarmi. Mi voltavo allora indietro, si placava; tornavo alle mie cose, aumentava, fino a quando spaventato e infastidito controllavo le maniglie. Una sottile e fitta pioggia iniziò scendere dritta. Qualcosa mi spaventava più del solito, più del buio che mi ha terrorizzato da bambino. Forse era proprio questo: ero al buio. Ero al buio perché la tempesta che principiava fuori face saltare tutta l’energia elettrica che cupolava sulla città. Di tanto in tanto, spaventosamente, s’intrometteva nella stanza una luce che rendeva tutto bianco: un lampo, seguito da un assordante tuono. Cercai di illuminare la piccola casa con delle candele. Dalla stanchezza probabilmente mi sentivo stanco e spossato, come un estraneo. Cercavo di pensare di dover mettere in ordine i fogli da lavoro, le cianfrusaglie che avevo in giro e i miei pensieri, ma l’unica cosa che mi riusciva facile era aggrovigliare ancora di più quella specie di parole confuse, stonate e disarmoniche che s’intrappolavano nel mio capo. 
Mi diressi quasi tentoni in cucina dove raccolsi tra le mani tremanti una tazza di caffè freddo, pronto dalla mattina. Accennai un sorso e nel preciso instante in cui si insediò in gola passando per il palato ruvido, indietreggiò il respiro. Mi sentivo come sospeso, indietreggiava ancora una volta. Portai le dita sul collo con un movimento convulso e frenetico. Strinsi gli occhi dal fastidio che procurava quel soffocamento, tossendo fortissimamente per tre volte. 
In quei forti accenti di tosse, così sforzati, era concentrata tutta la rabbia e la voglia di evadere da quella mia condizione che trovava emblema assoluto nel soffocare. E quelle dita che si stringevano al collo, invece che stimolare il respiro a procedere verso il suo normale corso, sembravano volessero bloccarlo, per sempre. 
Schiarita la gola, riaprivo lentamente gli occhi che quasi lacrimavano. Li spalancai immediatamente un attimo dopo quando davanti a me si disegnò un’ombra, immobile, con una ventiquattrore era dritta di fronte al mio corpo molle e sgraziato. Tutte le cose si fissarono nella paura e nel dubbio che mi assaliva come il brivido tra i capelli. L’ignoto mi spaventò. 
“Chi è? Che cos’è? Come ha fatto ad entrare? Quando? Da dove? Possibile che abbia tenuto gli occhi chiusi per tutto questo tempo e non mi sia accorto di un minimo rumore estraneo? Non vedo bene, manca ancora la luce e forse è solo un fantasma nato dalle mie fantasie. Sono allucinato, è probabile, sarò troppo stanco che…” mi rinchiudevo in questi pensieri, cercando di allontanare da me stesso quello che stava accadendo. 
Quella strana figura si presentò coi suoi chiaroscuri illuminati dal piccolo mozzo di candela che intanto si era consumata. Era alto, un po’ curvo; i suoi capelli grigi gli scendevano fin su le spalle e il ciuffo scompigliato ne portava innumerevoli verso sinistra; il mento era ricoperto da chiazze di barba bianca e lunga, come un caprone; le sue labbra erano rosee, accese; sotto le folte ciglia nere apparivano invece due grossi occhi agghiaccianti e celesti. La luce giallastra della candela sembrò intensificarsi, o soltanto quella macabra figura, elegantissima con un vestito nero e la cravatta, appariva più nitida nella mia mente. 
Si allungò sul suo volto un ghigno nella stessa direzione in cui curvò il collo per osservarmi compiaciuto e nello stesso tempo dubbioso. Mi squadrò da cima a fondo in quella posa. I suoi occhi tenebrosi scavarono nella mia anima, così fragile in quel periodo, che sembrava rendersi e perdersi allo sconosciuto. Per questi motivi, non riuscii a muovermi: i miei piedi erano piantati al pavimento, i miei occhi restavano spalancati come la mia bocca e forse ero ancora convinto si trattasse di un sogno, di un’apparizione che di lì a poco sarebbe scomparsa. Provai allora a strofinarmi le palpebre come un bambino spaventato e incredulo. Le aprii di nuovo e…nulla: quel mezzo uomo era ancora davanti a me, a fissarmi in quel modo immobile e snervante. 
- Salve! – la sua voce tuonò nella mia testa mettendo in fuga i miei pensieri sbagliati. Non era un fantasma. Aveva tutta l’aria di un burocrate affaccendato nelle sue cartacce sporche di inchiostro nero indecifrabile. Me ne accorsi dal modo frettoloso in cui aprì la sua valigetta poggiato su un ginocchio sospeso. Tenne stretto il lembo superiore sotto il mento, schiacciandolo sul petto. 
- Ho qui qualcosa che fa al caso suo…aspetti un momento che cerco di…ah! quanti fogli inutili! quante vite tristi oggi!..dovrei averlo messo..- nel frattempo accartocciava e sistemava da parte, sul tavolo, fogli sui quali era scritto il mio nome con accanto la mia foto. Non ricordo cosa pensavo in quel momento, se pure mi sforzassi risulterebbe impreciso, ero veramente sconvolto e assistevo alla scena incosciente. – Eccolo! – tirò fuori un volantino che mi tese. Feci un gesto lento per prenderlo ma lo ritrasse a sé, lo osservò davanti poi indietro – uhm..si è questo..tenga! – più lentamente di prima alzai il braccio e mi ritrovai tra le mani il foglio sul quale era raffigurato un vecchio. Era un vecchio seduto su uno sgabello, in abito rigorosamente di nero e cravatta rossa; barba e capelli bianchi e lunghi; aveva le cosce accavallate e poggiava sul ginocchio il gomito, e poggiava il mento tra le dita, assorto e serioso. Scorsi con gli occhi fino alla scritta:“VUOI UNA VITA FELICE?” e dall’espressione interrogativa e vuota, che feci rivolta a quel signore mentre il foglietto si afflosciò verso il basso, quello riprese a parlare con entusiasmo: 
- Allora? Ha letto? E’ lei che da un po’ è triste per la sua condizione? E’ lei che vorrebbe evadere da…lo…studio d’avvocati..Torinesi!?? – leggeva le informazioni da una delle sue carte - E’ lei che vuole essere un eccellente avvocato? E’ lei che vuole innamorarsi di una bellissima donna? E’ lei che vuole un figlio maschio? E’ lei che…- Quelle domande così ripetitive ma intime, quelle richieste continue che mi raschiavano l’anima, quel suono anaforico ‘’E’ lei..’’ mi penetrarono in profondità mettendo sottosopra i miei pensieri, risvegliando forte il flusso di sangue arterioso, che dalla mia bocca uscì un fioco e stonato:
- Sì. 
- Ah! molto molto bene. – sorrise mostrando i suoi denti aguzzi e gialli – Mi dica un’altra cosa, l’ultima: è lei Fausto? – acconsentii col capo – Perfetto! Io sono Mefistofle

1 commento:

  1. Ciao Antonio. Devo dire che mi piace molto il tuo modo di scrivere, estremamente personale. Aspetto le prossime puntate!

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